Io e Springsteen

di Carlo Puddu.

Come parlare di Bruce Springsteen senza cadere nei soliti luoghi comuni?

Da appassionato di musica Rock ho una serie di domande che mi frullano nella testa ma che non riesco a portare alla luce come risposta.

Come può un artista dopo tanti anni di carriera continuare a mietere vittime come la più giovane teen-idol band?

Quali corde profonde tocca la sua musica da rendere bimbetti dei rispettosi 40/50enni o da rendere adulti degli imberbi ragazzetti?

Può davvero il Rock avere ancora la forza comunicativa di un tempo?

Quali misteri concorrono a farmi aspettare ogni volta un nuovo concerto di Bruce Springsteen come il più grande collettivo rito pagano, dove un’incredibile gamma di sensazioni si sprigionano libere e incontrollate?

Sarà idolatria la mia? Sarà pazzia? può darsi… ma resta comunque il fatto che dopo aver visto decine e decine di concerti di vario genere e delle band più disparate, quello che Bruce Springsteen mette in scena ogni volta è la più travolgente rappresentazione della storia della musica Rock. Qualcosa che mi riconferma il perché a 15 anni ho preso “London Calling” dei Clash dalla collezione di mio fratello e non sono più tornato indietro.

Gli anni passano, tutto invecchia, la vita si complica, i vinili e le cassette sono sparite e ora anche i cd. I generi musicali si sono moltiplicati e così i modi di reperire musica. John Lennon, Elvis, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Joe Strummer sono morti, Bono non lo è ancora (ma è come se lo fosse) e in tutto questo Bruce Springsteen continua a raccontare il suo straordinario romanzo popolato di perdenti, sognatori o semplicemente gente che cerca ogni giorno il riscatto in un mondo maledettamente complesso.

La mia generazione (chi è nato negli anni ’70) ha conosciuto Springsteen attraverso Videomusic o MTV alla metà degli anni ’80, con quel gioiello di R’n’R (enormemente frainteso) che è “Born in the USA”. Di sicuro non il suo miglior album, ma comunque potente, impegnato e punto di arrivo di tanti suoi personaggi presenti nel viaggio degli album precedenti. Quante serate ho discusso con vari amici per cercare di spiegare cosa sta dietro quelle canzoni, ma purtroppo per tanti quel grido urlato a pugno chiuso (nato negli USA!) è passato come un semplicistico slogan nazionalistico americano. Una sorta di Rambo del mondo musicale. E quando c’era l’America di Reagan in giro non era una buona cosa con cui essere accomunati. Non importa l’arte è anche questa e si è liberi anche di fraintendere o semplicemente non apprezzare.

La realtà è che Springsteen è molto di più di una canzone buona o brutta. La sua grandezza sta nell’aver inventato un suo immaginario, tipico della grande letteratura americana. Qualcosa come Steinbeck, Faulkner, Jack London, Hemingway, Raymond Carver con la chitarra. I protagonisti di “Born to Run” sono fuggiti dalla città inseguendo il sogno americano, con “Darkness on the Edge of Town” hanno incontrato la realtà di dover lottare ogni giorno con i propri fantasmi, il rapporto con i genitori o con la difficoltà di avere una vita decente. “The River” è l’album dove tutto si sgretola, falliscono i matrimoni e la vita si fa ancora più amara. Ma nonostante tutto si lotta con un’indistruttibile fiducia nella vita.

“Nebraska” è (forse) artisticamente la vetta più alta. Dieci canzoni registrate a casa con un 4 piste Tascam. Una manciata di canzoni chitarra e armonica dove si materializzano gli spettri peggiori dell’America reaganiana. Canzoni che sembrano venire fuori dal deserto delle periferie americane, dove le fabbriche chiudono e non si trova lavoro. Dove gli errori della grande politica ricadono impietosi sulla gente comune. Dove si perde lavoro, le banche ti prendono tutto e per una disperata sbornia di Tequila e Whisky si arriva ad uccidere, per poi fuggire, venire arrestati e alla fine uccisi sulla sedia elettrica. Un America lontanissima dal brillante sogno americano dei primi anni ’80 raccontata dai film o dalla televisione. Un album sulla solitudine e sulla disperazione nel mondo occidentale, figlio di Woody Guthrie, Hank Williams, Johnny Cash e Bob Dylan. I disperati di “Nebraska” ritornano con “Born in the USA” e questa volta la domanda è ancora più diretta: Cosa ti resta dopo aver combattuto in Vietnam per il tuo paese? Perché devi lottare ancora quando hai compiuto il più alto sacrificio per il tuo paese combattendo una guerra sporca?

Questo sta alla base della tematica dell’album che rese Bruce Springsteen una rockstar planetaria. I veterani erano tornati, mutilati fisicamente e psicologicamente ma l’America aveva voltato pagina nei luccicanti anni ’80. Le ferite erano profonde e gli USA volevano dimenticare. Non c’era più spazio per chi, anche soltanto fisicamente, ricordava la sconfitta del Vietnam. Il lavoro non c’era più per loro e di nuovo mancavano la basi per crearsi una vita decente. L’urlo a pugno chiuso rappresentava questo : Io sono nato negli USA, mi hanno spedito ad uccidere i “gialli” e ora non ho un posto dove vivere ne un lavoro per dare un futuro alla mia famiglia. Grandi domande per un disco Rock che ha venduto la bellezza di 20 milioni di copie e che funestava le radio nell’estate del 1985. E così via via (con un paio di album discutibili) fino alle altre meraviglie che sono “The Ghost of Tom Joad”, “Devils and Dust”, “The Rising” e “Magic”.

Una continua ricerca di risposte dal mondo di oggi, dove i disperati diventano gli immigrati ai confini della California, i giovani che partono (di nuovo) per la guerra in Iraq o semplicemente l’uomo comune che deve affrontare l’odierna e terribile crisi economica. Non è solo una canzone ma è un mondo dove tanti hanno avuto la fortuna di entrare e partecipare, riconoscendosi a seconda dei momenti della propria vita in Johnny 99, Hazy Davy, Wild Billy, nelle notti d’amore sbagliate di The River, nelle frustrazioni di un matrimonio, nella rabbia di Tom Joad, nell’uscire con un amico arrapati di ragazze o nelle speranze dell’ “indignado” Jack of All Trades.

Ma tutta questo fiume di parole risponde in parte alla mia domanda iniziale. Perché c’è un mistero nella musica di Bruce Springsteen che ti riempie di gioia anche nelle sue storie più disperate. Una forza continua che ti scorre dentro, un incrollabile fiducia nella vita e in un suo possibile riscatto, che ti fa camminare a testa alta orgoglioso. Qualcosa che nonostante tutto ti fa dire che la vita è qualcosa di unico e straordinario e che vale la pena viverla fino in fondo, sbagliando, inciampando ma sempre rialzandosi con dignità, cercando qualcosa di meglio che deve essere da qualche parte là fuori. E lui il Boss lo sa. E ogni volta dal vivo lo ricorda, lo racconta, lo canta, lo urla, facendoti divertire, ballare e sognare con il più grande linguaggio che l’uomo moderno ha inventato: il Rock’n’Roll.

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