di Piero Gattone.
Milano, San Siro. Cinque volte, Cinque concerti, ventotto anni. Mettevi comodi. Questa volta la prendo lunga, dannatamente lunga. Back in the beginning.
Lo stadio di San Siro aveva un anello in meno, c’era un palacrollato di più. La mia età anagrafica, non quella mentale, mi collocherebbe in pieno nella generazione Born in the USA, purtroppo o per fortuna è sempre una questione di punti di vista, ero già rovinato da anni, tra l’influenza degli amici più grandi, quelli con il px125, lo stereo (!) e delle cose strane che chiamavano con tono da carbonari “butleg”, e la trasmissione durante Mister Fantasy dei quindici minuti di No Nukes, il danno era stato fatto più o meno alla fine del 1981.
Nell’84, ero già dentro, Born in the USA comprato il giorno dell’uscita, vinili assortiti, bootlegs, il mittico libro della Cevoli “buttati dalla finestra e lascia che il vento scompigli i tuoi capelli” ma sto, come al solito divagando.
Quando il fido spacciatore di vinile, nella primavera del 1985, mi estrae davanti un blocchetto di biglietti, con su brus che salta davanti alla bandiera americana, tento un esame di coscienza, cerco di fermarmi, di ragionare ma dopo qualche microsecondo l’acquisto è concluso.
Riesco a convincere i miei genitori che non ci potrà mai essere un Heysel ad un concerto, siamo tutti tifosi della stessa squadra, beata innocenza, soprattutto Roskilde sarebbe arrivato 15 anni dopo e nessuno dei miei sapeva nulla di Altamont ’68 (effettivamente allora nemmeno io). Mi aiuta anche il ministero della difesa, la visita di naja, distretto di Alessandria, è fissata per il 28 giugno 1985.
Partenza la mattina, si arriva davanti allo stadio e, nessuna transenna, nessun appello, nessuna lista. Solo code selvagge, compressioni e assistenza del dio degli accessi allo stadio, il fratello sportivo del dio dei ciucchi. Ad un certo punto, arriva pure un celerino, alto un metro e 12 cm, con tanto di armamentario antisommossa, zioquestore, e si mette a sbraitare di cariche, ma siamo sicuri che abbia capito che si stia parlando di un concerto?
Dopo una serie di spostamenti indipendenti dalla nostra volontà ci ritroviamo all’interno della cancellata dello stadio e dobbiamo solamente trovare una sistemazione all’interno. Decidiamo di rimanere insieme e la maggioranza decide per quello che ora si chiama il primo anello blu e che una volta era solamente la curva sud.
Mancano almeno parecchie ore al concerto e la gente in transenna che è già compressa. Ogni tanto il servizio d’ordine bagna con gli idranti le prime file, qualcuno collassa e viene estratto. L’attesa dell’inizio del conzierto è sempre la stessa, possiamo saltarla e perderci in una digressione.
Parlare del passato è una bastardata, più il tempo passa e più le cose diventano belle, anche il Billy alla mela (cit.) bevuto a quel concerto è diventato un sidro artigianale. Indosso per un attimo i panni dello spocchioso, concerto infilato tra i concerti tedeschi e quelli francesi, un paese nuovo, nessuna confidenza con la lingua, si va di scaletta standard e pedalare verso Montpellier. La verità come sempre dovrebbe essere nel mezzo. E poi i miracoli succedono per caso.
Prima dell’inizio, per cercare di placare la bolgia infernale delle prime file, sale sul palco uno strano figuro, con una maglietta a strisce orizzontali banche e rosse che esce dice “ gli ho parlato e bruce è carico”. Si, si, si Mamone, hai proprio fatto la scelta migliore per cercare di calmare gli animi.
Alle 19:25, manco era iniziato il ritardo, risuona il primo colpo di grancassa di Born in the USA… lo stadio esplode. E poi giusto per accelerare ancora Badlands, Out in the Streets, con il sole che tramonta sullo stadio.
I megaschermi dell’epoca, potevano essere usati solo al buio, dal fondo si vedono delle figure piccole, piccole, ce ne è una appena più grossa, tutta vestita di bianco… La musica arriva, come un treno, non c’era ancora il comitato dei cagacazzi sansiresi.
Ricordo l’attacco di batteria di Working che rimbombava nel mio plesso solare, cosa mai più provata in nessun altra occasione, i cori sul finale di Glory Days, lo stadio che cantava The river e la scivolata sulle ginocchia più famosa della storia del rock, mentre si spengono le ultime luci del giorno.
Si ricomincia e… parte l’angolino martella molella, luci viola dal palco, echi… cavermi… cavermi…
Si accendono pure gli schermi. Il primo particolare che si nota è l’eleganza di Bigman, ora vestito da bandiera italiana. Pantaloni rossi, camicia bianca cappellino e polsini verdi.
Dopo la ragazza di dancin’, si chiude la balera e inizia la musica seria, macchese accende la caddy nella Miliano night, il sombrero di Nils con scritto su Hoboken, Bruce inizia a chiamare i cori e tutto lo stadio esegue, arrivano pure Terry e Rosie per fuggire nella calda serata di inizio estate. E poi …
“I would like to take a moment and thanks everyone for coming down here in miliano…”
Wise man say… arriva la mazzata che non ti aspetti, Can’t help falling in love con solo Roy al piano, ziopelledoca, e dopo tutto questo tempo la pelle d’oca continua a tornare. E via, verso il primo set di bis. Born to run per tutti, Bobby Jean per gli assenti.
“Good now we begun” e inizia la vera devastazione, non tanto per varietà quanto per intensità, Twist and Shout/Do you love me dura quando un brano prog corto, ma senza ippogrifi. Ad un certo punto, mentre stanno eseguendo il passaggio verso Do you love me? parte un coro spontaneo, è l’istante in cui si accende la scintilla, abbiamo fatto la storia.
Quando Bruce chiede a tutto san siro do you love me? Non è ne per scherzo ne per finzione scenica ma è l’unica cosa che conta in quel momento. Niente sarà più come prima. Finisce twist, finisce il concerto. Tutti schierati per il saluto finale, e no, barboni tornate al lavoro, si suona pure Rocking all over the world.
Game, set, match. Io ritornerà ancora. Eccome se tornerai. Si, svariate volte, da solo, con gli zozzoni, con la E-street, ma prima che tu rimetta piede a San Siro, dovranno passare 18 anni. Una vita.
Hard times come hard times go (cit.)
E’ cambiato tutto. Lo stadio si è alzato, Italia 90 gli ha regalato un terzo anello. Il palco si è spostato sotto la tribuna arancio. E’ arrivata internet, ci sono le mailing lists, le reunion di Reggello, i blabbrada, addirittura il pit. I primi cento di ogni cancello, avranno il braccialetto per accedervi. Giusto per aumentare l’attesa dell’evento, è l’ultima data del tour europeo, siamo nell’estate più calda da anni, non c’è una nuvola da settimane. Almeno fino alla notte prima del concerto.
Arrivando alla mattina presto, si vedono strani avvenimenti, gente sfatta da una notte tra le zanzare ed il primo temporale da tempo, che si lava i denti sopra un tombino, altri che arrivano in bicicletta per conquistare il posto in coda. L’attesa è una festa, vedi gente, fai cose, chi è fuori dai 100 prediletti vaga tra le code a cercare i conoscenti.
Il soundcheck di Follow that dream ci svela una delle sorprese della serata. L’afa aumenta, finalmente si entra nel prato, camminando senza nessuna pressione, come cambiano i tempi. Chi è entrato tra i primi, io quella volta rimasi fuori, ricorda una lotta epica con la security per entrare all’interno delle transenne del pit, giusto per ricordare i tempi passati.
Partono le note di C’era un volta il West di Morricone, la band sale sul palco e inizia The promised land. Si ricomincia. La scaletta è quella classica del Rising tour, almeno inizialmente.
There is a dark cloud rising. Si iniziano a vedere dei lampi in lontananza, e durante The River arrivano i primi goccioloni. Tempo 3 millisecondi e sembra di essere finiti sotto le cascate del Niagara. Il diluvio universale non è nulla. C’è chi fugge al riparo e chi avanza verso il palco per rimpiazzare chi cede. I casi della vita. Durante Sunny day, la pioggia è ancora più copiosa.
Ci becchiamo pure l’unica canzone che vorrei sempre solo ascoltare su bootleg, Who’ll stop the rain, ma l’esorcismo non riesce, piove, piove, continua a piovere ma Growin’up scalda il cuore dei vecchi fanz, (anche di quelli nuovi, ma a noi di più).Growin’up, in tempi non sospetti, veniva rallentata e dilatata con una storia, potevano essere degli ufo, Dio in persona barba e batteria comprese, vecchie zingare, orsi ballerini, che consegnavano a Bruce il segreto dell’universo. Questa volta rallenta, Brus prende il microfono e ricorda, in italiano, il 1985 e i mille fanz pazzi molto pazzi…. bang, un altro passo che ci porta fuori dalla storia per entrare nella leggenda (cit.).
Chissenefotte della pioggia abbiamo appena trovato le chiavi dell’universo. Il concerto poteva anche terminare qui e invece no, continua eccome se continua, nel sapiente mix di pezzi vecchi e nuovi. Niente scaletta pazza questa sera. Arriviamo felici ai bis, Bruce, si mette al piano, per suonare My city of ruin. Ovviamente troppi normaloidi per ascoltarla in religioso silenzio. Ma abbastanza per esplodere nel primo come on rise up. La faccia di Brus vista nel megaschermo vale da sola il prezzo del biglietto.
E alla fine ritorna a casa pure la nostra amica Rosie. “Ci vediamo ancora”. Per fortuna passano meno anni, solo 5.
Sempre fine giugno, sempre caldo, il pit è un istituzione, anche se ogni volta, diventa sempre più complicato arrivarci, ogni anno, il numero di chi si presenta ad orari improbabili davanti alla location (si, ce l’ho fatta, sono riuscito a scrivere una frase contenente location, anzi 2 di fila) aumenta in maniera esponenziale. Oramai l’accesso è routine, arrivi presto, ti accodi per il pit, prendi il braccialetto, quest’anno in una sciccosa plastica rosa, e poi cazzeggi fino a quando non decidi di entrare.
Più il tempo passa, più Brus diventa pigro, siamo passati dai 5 minuti di anticipo alla classica mezz’ora di ritardo. Poi finalmente le note di The Daring Young Man on the Flying Trapezeintroducono la band. Max, parte secco, ma secco e via con Summertime Blues, manco fossimo all’Agora 30 anni prima. Zio macchina del tempo.
Bruce inizia il miglior concerto a San Siro, non ha l’aura mitica dell’85 ne il diluvio universale del 2003, dovremmo essere nel Magic tour, almeno il calendario dice questo, ma in realtà ci becchiamo un concerto in puro darkness style. Tirato, secco. Senza fronzoli. Senza Sunny day. Un concerto a Milano senza Sunny day, ha già 10 punti di figosità (cit.) di vantaggio su qualunque altro.
Esiste una canzone, che vorresti sempre ascoltare ad un concerto di Brus, per qualcuno è Jungleland, per altri è Thunder Road, per qualcun altro è Pony boy, e questo vorrei conoscerlo, per me questa canzone è Racing in the Streets. In 23 anni di concerti, non ero mai riuscito ad ascoltarla. Nel 2005 l’aveva pure fatta in Italia, nell’unico concerto in cui non ero presente. Nel momento in cui pronunciando “Finally” alza il cartellone con su scritto Racin’….il cerchio si chiude. Sono 10 minuti che durano un’ora.
Il duetto con Steve durante Long Walk Home, I’m on fire seduto su una sedia sulla passerella, il solo devastante di Nils in Because the Night. Hungry heart che parte acustica prima del tripudio cantereccio, None but the brave e basta il titolo. Ogni canzone è un highlights. Otto bis, sforamento del coprifuoco di 20 minuti, con grande gioia di Trotta che vince una denunzia da parte dei cagacazzi di quartiere.
Dopo il 25 giugno 2008, non ho mai più detto che il miglior concerto di Springsteen sarebbe stato il prossimo.
Siete stanchi? Su dai che ce la facciamo, manca poco alla fine.
Altri quattro anni, e siamo di nuovo davanti alle porte di San Siro. Più o meno un anno fa ci ritroviamo ancora davanti a questo ammasso di cemento armato.
Oltre al pit, il buon promoter italiano, ha importato dagli USA pure la lotteria, nella speranza che scoraggi i campeggiatori a presentarsi dodici mesi prima, con appelli ogni quattro ore per avere il numero 1. Apriti cielo!
I teorici del non può esserci transenna senza soffrire le pene dell’inferno sono sconvolti, anche se all’estero accettano le regole senza dire una parola. Parentesi, l’unica lottery statunitense a cui ho partecipato era l’anno scorso al Metlife era uguale, braccialetto ai primi 1000 arrivati e quindi estrazione per il numero. Meglio tornare in tema, l’unico risultato della lotteria all’italiana è aver anticipato l’orario di arrivo davanti allo stadio delle persone.
Se nel 2008 arrivando alle 9 prendevi il braccialetto, a questo giro, gli ultimi che lo hanno preso sono quelli arrivati verso 8, e giusto per chiudere l’argomento, nel 2013, nonostante l’organizzazione avesse aumentato il numero dei braccialetti distribuiti, se sei arrivato dopo le 6 e 45, sei finito nella coda normale a sperare che Sant’Ambrous ti faccia l’indulgenza plenaria. Robb de matt. Lasciamo perdere, non consideriamo le ore di tedio passate prima nelle code al cancello 15, e poi nel pit, dato che il santo ha dato l’indulgenza, e l’area si è riempita a dismisura già 5 ore prima dell’inizio.
E il concerto? Dai il concerto? In inglese la parola migliore per definirlo è disappointing. Ma come? Uno dei concerti più lunghi della carriera del Brus, 10 bis, The Promise al piano, di che ti lamenti?
Doverosa premessa. Ai concerti, vado per divertirmi, sempre. Non mi porto il cilicio, e le puntine su cui inginocchiarmi. A quella sera milanese ero arrivato sdraiato dai casini e ogni canzone che ascoltavo mi toglieva un pezzo dell’orango dalle spalle, ma… ma… ma quello non era il concerto di Springsteen al quale ero abituato, e questa sensazione l’abbiamo avuta in tanti, forse troppi.
Lo sappiamo, Bruce legge il pubblico e adatta quello che fa sul palco alle reazioni della gente, a Milano ha chiamato una serie di audibles che manco Peyton Manning chiama in una partita (ok per quelli che non masticano di football americano, Peyton è un quarterback, famoso per adattare il suo attacco alle difese avversarie modificando gli schemi d’attacco a squadre schierate con istruzioni a voce chiamate audibles)
Risultato, la setlist è stata una sequenza di classiconi riempipista senza nessun filo loggico ‘mportante (cit.). Anzi il filo logico era far cantare gli spalti di San Siro. Alla fine un concerto ogni tanto è solo un concerto. Ma come? San Siro always primo? Non per questa data. Basta, caliamo un velo pietroso e proseguiamo.
Ci ritroviamo a lunedì scorso, levataccia, parcheggio tattico con gratta e parcheggia annesso, coda apocalittica sotto la curva nord. Deja vu all over again (cit.).
Tra una gestione oculata dei flussi verso il braccialetto (si legge becco la corsia giusta e sorpasso almeno 100 persone in una curva del serpentone) e un’estrazione abbastanza favorevole, solo 330 persone davanti, mi ritrovo con un’ottima posizione di partenza per questo nuovo viaggio.
Le solite sette ore da far passare, per fortuna i vicini di casa sono persone simpatiche. Alle cinque, ci fanno lo scherzone. Esce il cameraman, esce la camerawoman, si accendono gli schermi….
Tutti in piedi, a momenti mi asfalto un ambulante che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. E poi un cazzo, falso allarme. Tutti amabilmente compressi, tanto fa freschetto e mancano solo due ore e mezza all’inizio del ritardo.
Apro una parentesi sulle previsioni meteo, ai simpatici metereologi del meteo.it potrebbe venire un cagaccio? Annunciano pioggia, nubi, in quella che si rivelerà la prima giornata di tarda primavera. La piantassero con sta cazzo di mania di dare sempre la previsione peggiore, anche se ha lo 0,0002% di avverarsi.
Finalmente la si va ad iniziare. Il solito Morricone per salire sul palco, e arriva la coreografia, ammetto mi sono sbagleujfsdfj, quando pensavo che fosse una cagata, complimenti a chi si è fatto il culo per realizzarla. Basta che adesso non diventi tradizione come l’angolo dello zecchino d’oro.
Quando i musici si riprendono parte il concerto. La prima canzone è inquietante: Land of hopes and dreams. Si quella che se va bene arriva alla fine del set regolare, o nei bis. Opener. OUCH. This one hurts.
E via come se fossero i bis, una canzone dietro l’altra, senza respiro, raccoglie i cartelloni, e ci compone una sequenza da infarto, American Land, recuperata fresca fresca dai bis, Long Tall Sally e Loose Ends. Ok, inizia con i bis, tanto poi quelli reali saranno i soliti noti. Questa sera si dimentica pure di We take care, e Crazy Janey rimane a casa, niente gita al Greasy Lake per lei. Arrivano Atlantic City e The River, con tanto di ripresa finale del coro del pubblico. La scaletta pazza!!!
Un flashback, in circa 16500 battute non ne ho fatto nemmeno uno, e non va per niente bene.
Torniamo un attimo a Stoccolma, al primo concerto, quando ha introdotto l’esecuzione completa di Born to Run, come omaggio ad una delle prime città europee dove ha suonato (21/11/75 per gli statistici). Io e tanti altri, abbiamo pensato “A Milano faràBorn in the USA”. Detto detto, fatto fatto. La mia prima previsione su un concerto di Bruce esatta.
Vista la partenza sparata, e la presenza di tutto Born in the USA, che detto per inciso avrebbe compiuto 29 anni il giorno dopo, la setlist non può che essere ye-ye (nonostante tutto quello che raccontano quelle canzoni, veterani disoccupati, abbandoni, fallimenti, desideri non realizzati, fabbriche che chiudono).
Come ho già detto, ai concerti si va innanzitutto per divertirsi, divertiamoci e fuck the world. Riscopro Cover me, con un solo devastante di Nils, e metto nell’album delle figurine pure I’m Going Down. Dopo un altro graditissimo ritorno, My Hometown, inizia l’angolo Hulk Hogan, ovvero le canzoni che non potranno mai essere sconfitte, quelle che noi minoranza transumante vorremmo dimenticate, e che il pubblico normale accoglie con gioia. Il set regolare si chiude con Hungry heart (sic.) First time ever.
Giacomino arriva con il tamburo a tracolla. Questo significa solo una cosa il ritorno di We are Alive, la introduce richiamando l’immagine dei fantasmi del passato che ci parlano. E poi attacca This Land is Your Land… Zioudygatri. Qualcuno più bravo di me, magari riuscirà a dare un senso a questo accostamento io me lo godo e basta.
Born to Run e 10th avenue sembrano portare il concerto verso la solita chiusura. Non è Milano senza Twist and Shout, oramai lo sappiamo. Quello che nessun altro sa è che nei bis ci finisce pure Shout. Un toga party da 60000 persone, vedere, tutto il prato che si accovaccia su little bit softer fa ritornare i brividi.
Saluti finali. Finito. No. Kevin porta un reggi armonica e un acustica a Bruce, che attacca Thunder Road acustica, invitando tutto il pubblico a cantare con lui. Immagini che sfumano, titoli di coda, commozione finale.
The future is unwritten