di Chiara Pignanelli.
I concerti di Springsteen non sono concerti per gente con il cuore debole. No.
Non per la durata, che certo mette a dura prova la muscolatura atrofizzata di tanti di noi 9to5’ers che il massimo sforzo quotidiano lo fanno per andare tre volte al giorno alla macchinetta del caffè, ma che quando si è lì non ci si fa caso e sembriamo tutti maratoneti.
Tre ore e mezza che scivolano via e quando pensi che non hai più la forza nemmeno per alzare un braccio parte Born To Run e che fai, rimani fermo? Chiedi pietà, ma continui a saltare con un sorriso ebete dipinto in faccia. E quando ti chiede sempre dopo tre ore, a te che sei nel prato e ormai hai gambe della stessa consistenza delle canne di bamboo, di abbassarti, inginocchiarti e poi rialzarti per saltare lo fai imprecando e ridendo insieme al signore di fianco a te che le rotule le ha lasciate a casa insieme alle scarpette da pallone numero 35 di quando aveva 13 anni. Questo è Bruce, questo è un concerto di Bruce e per quanto abusata la frase “Il mondo si divide in due categorie: chi ama Bruce Springsteen e chi non lo ha mai visto dal vivo” è quella che descrive meglio l’esperienza, il viaggio che è un suo concerto.
Non potete avere il cuore debole, dunque, siete avvisati. Se siete abituati a guardare online le scalette dei concerti giorni, mesi prima, a memorizzare le canzoni e i testi sapendo cosa aspettarvi o se date persino un’occhiata prima della vostra data ai video su Youtube dei concerti precedenti dell’artista che state per andare a vedere per non avere sorprese: siete avvisati.
Un concerto di Bruce è un viaggio, ed è sempre diverso. Lui ti porta con se nella terra dei sogni e delle speranze, e la strada per arrivarci la decide con te e per te ogni singola volta, con il rischio di perdersi qualche panorama dal finestrino a cui tu sei molto affezionato ma facendotene magari scoprire altri rendendoti grato alla fine e mai deluso.
Perché c’è un attimo in cui il fan viziato che è in tutti noi guarda la scaletta di Padova con Born to Run suonato per intero e pensa “no, maledizione, quello toccava a me, A ME! E invece ora, come minimo, mi toccherà sentireBorn in the USA. Perché Bruce?”. Un album a cui non sono particolarmente legata, per inspiegabili motivi ma più che altro, insomma, io – sbattendo i piedi come una bambina – volevo Born to Run. Il pensiero si materializza quasi subito quando annuncia in uno splendido zoppicante italiano che per celebrare il suo / nostro viaggio iniziato nel 1985 e la sua quinta volta in questo stadio che ogni voglia gli lascia un segno nel cuore “suoneremo tutte le canzoni di Born in the USA” e tu provando un po’ di vergogna quasi rimani delusa, per un attimo, quell’attimo infantile in cui ti dimentichi che circa 30 secondi prima hai pianto sentendo una The River da pelle d’oca, immensa come solo quei capolavori immortali che sembra sempre di sentirli per la prima volta possono essere. Salti lo stesso durante Born in the USA, eccome. Urli, anche.
Poi ti fermi, e ascolti quelle canzoni che non ti hanno mai fatta impazzire, forse perché ascoltate superficialmente, ma che lì sembrano diverse, sembrano proprio le canzoni di cui avevi bisogno. Perché lui lo sa, cosa credi? Nulla avviene per caso in un concerto di Bruce, lui ti vuole portare in un posto dove ci siete solo voi e io mi sono sentita così durante quei pezzi: sola tra 60.000 persone ad ascoltare un messaggio a cui non avevo fatto caso e sarò ingenua ma mi è sembrato lui fosse contento quasi come me di quello che stava succedendo. Il suo sguardo, la sua commozione alla vista della coreografia, l’incredulità davanti a quella connessione ininterrotta e sincronizzata che a San Siro arriva ad ondate come non accade in nessun altro posto al mondo, parlavano senza bisogno di parole.
Che non ce n’è mica bisogno, di grandi discorsi, quando usi le canzoni per parlare come lui fa da tutta la vita.
Così succede che quando ormai il concerto è arrivato quasi al termine, dopo un’intensissima This Land is Your Land in un combo micidiale con We Are Alive che ti strappa il cuore, dopoBorn To Run che per riprenderti spendi 9 euro in bottiglie d’acqua, dopo una Tenth Avenue Freeze Out un pò meno triste dello scorso anno ma sempre celebrativa di quella macchina da musica enorme perfetta e definitiva che è la E Street Band, dopo la festa finale di Twist and Shout, dopo aver fatto sedere tutto il prato con Shout, succede che saluta e mormora in continuazione “unbelievable” proprio mentre dentro di te stai pensando la stessa cosa, di lui.
Gli altri scendono dal palco, uno alla volta. Vedendoli le tue gambe e il tuo cuore urlano insieme sentimenti contrastanti: le prime stanno per cedere stremate, il cuore che di amore non ne ha mai abbastanza invece ne vorrebbe ancora… ma quando quasi ti rassegni al fatto che la festa per stasera è finita, Bruce non è d’accordo perché vuole dare ancora qualcosa, ci vuole salutare per bene.
Riprende la chitarra, l’armonica, e nella testa di 60000 persone si incrociano desideri e speranze per ciò che sta per accadere. E poi SBAM! Parte quell’attacco che ti ha cambiato la vita, ti colpisce come un pugno proprio quando non te l’aspetti e ti accasci al suolo perché più di così non ti poteva leggere nel pensiero, meglio di così proprio non poteva andare.
Oh Thunder Road, oh Thunder Road, oh Thunder Road.
Piangi con i vicini sconosciuti, piangi da sola, in un misto di gioia gratitudine incredulità e amore. Per la vita, per aver vissuto, per Bruce.