di Vittorio Pasquali.
PREMESSA
Su, dai, scriviamo qualcosa su San Siro, sennò finisce che, come per Napoli, a forza di pensarci su non scrivo niente. Invece su Milano qualcosa bisogna dire, per vari motivi, però è stato un concerto strano e volevo lasciar sedimentare le sensazioni prima di buttarle giù; nel frattempo ho letto tantissime opinioni interessanti, oltre alle solite noiose banalità di chi rifiuta a priori qualsiasi osservazione critica… So già che faticherei a scrivere qualcosa di ordinato e rigoroso, quindi mi rassegno fin d’ora a buttare lì un po’ a caso le mie osservazioni.
Premetto anche che io di concerti ne ho visti parecchi: non lo dico certo per vantarmi ma solo perché le mie considerazioni risentiranno necessariamente di questo. Fa benissimo Bruce a far contenti anche i tanti, tantissimi che lo vedono per la prima volta o magari solo una volta per tour, ci mancherebbe, ma lascio a loro il piacere di esprimere quel punto di vista: io sul groppone ho questo passato, nella memoria conservo questo tot di concerti e non li posso cancellare, né posso, né voglio fare finta che non ci siano stati, per cui non potrò che scrivere di conseguenza.
Non vorrei per questo sentire le solite tristissime cose tipo “prenditi una vacanza, smetti di ascoltare bootleg (cosa che peraltro non faccio quasi mai), è colpa tua, sei tu che sei cambiato” eccetera: abbiate pazienza, esistiamo anche noi, ci riserviamo il diritto di essere a volte critici con Bruce ma continueremo comunque a seguirlo con una certa intensità e frequenza: sapete com’è, lo amiamo…
Ecco, in effetti è un po’ come quando si ama una persona: all’inizio, soprattutto se si è giovani, se ne vedono solo gli aspetti positivi, è tutto rose e fiori ed è giusto che sia così; ma è solo quando ci si continua a stare insieme dopo tanti anni, pur conoscendone i limiti e i difetti, che si può dire di amarla veramente!
SCALETTE
Un grande show, senza dubbio, ma non saprei dire se il protagonista principale stavolta è stato Springsteen o noi fan. La scaletta è stata davvero bislacca… Oh, sia chiaro, io non sono tra quelli che inseguono il “Messaggio”, anche perché mantenere un eccessivo rigore concettuale sera per sera va fatalmente a scapito della varietà delle scalette e io adoro le scalette che cambiano ogni sera.
Non sono nemmeno contrario agli album suonati per intero, perché se è vero che ti tolgono un po’ di sorpresa è anche vero che ti garantiscono da subito delle chicche… Non capita tutti i giorni di sentire “Meeting across the River”, “Streets of Fire” o “I’m Going Down”, per citarne una per album, e taccio di ciò che comporterebbe sentire altri dischi come spero ardentemente possa accadere.
Non ce l’ho nemmeno con le richieste del pubblico, anche se alcune mi deprimono per banalità: pure io ho fatto le mie brave richieste e ognuno ha i suoi gusti. Però, insomma, su, stavolta ha esagerato: ma sì, dai, uno potrà anche suonare “Land of Hope and Dreams” in apertura, però mi ha fatto un effetto strano perché non potevo che pensare al Reunion Tour, quando quella canzone arrivava a fine concerto a portare un messaggio di speranza nel futuro, musicale e personale , della band e nostro, come a riallacciare un discorso interrotto dalla separazione della E Street Band. E lo stesso potrei dire di “American Land”, con la quale presentava la band negli scorsi anni a fine concerto.
Vedete, da anni sento di parlare di scalette juke-box, dell’eccesso di richieste eccetera, e non ho mai concordato con chi ci vedeva degli aspetti negativi: beh, adesso, dopo San Siro, è un po’ come se mi svegliassi e capissi che si è andati troppo oltre, al punto che mi tocca dare ragione ai più accorti critici della prima ora.
PICCOLI FANS
Vero è che a partire dallo scorso anno mi è sembrato di vedere improvvisamente fra il pubblico molti, molti più giovani del solito e la cosa mi ha fatto felice, felicissimo: questo vuol dire che il rock ha un futuro, che i ragazzi non vanno tutti appresso a… boh… chi va di moda adesso? Ah, gli One Direction… Ecco, ci sono anche tanti giovani che anziché delirare per gli One Direction ascoltano il Boss, si riconoscono nel suo messaggio, nei suoi testi, si emozionano con la sua musica e questa è una cosa stupenda. Però non penso che Bruce debba snaturare interamente la coerenza del concerto per compiacere il suo nuovo pubblico.
Nel Tunnel of Love Express Tour del 1988 Springsteen fece delle scelte radicali, del tutto impopolari: via “Badlands”, “The Promised Land” e quasi tutto “Darkness”, “The River” quasi azzerato, via buona parte del pur recente e amatissimo “Born in the U.S.A.”, via “Thunder Road”, “Born to Run” suonata in acustico… Al loro posto, quasi tutto l’ultimo “Tunnel of Love” e svariate cover ignote a molti fan italiani come “Boom Boom”, “Sweet Soul Music”, “I’m a coward (when it comes to love)”, “War”eccetera.
A Roma, il 15 giugno, non fece nemmeno “The River”. Eppure questo non indusse un giovane ventenne che quella sera lo vedeva per la prima volta a cambiare idea: certo, quel ragazzo ci rimase un po’ male a sentire tutte quelle canzoni che non conosceva invece dei grandi successi che sognava di ascoltare, ma qualcosa gli rimase se è vero che poi tornò un sacco di volte a vederlo… Nel Rising Tour, poi, Bruce aveva forse trovato un magico equilibrio fra il filo conduttore tracciato dall’album, a mio avviso uno dei più belli post-90, e i classici; fra il rigore e la flessibilità delle scalette; fra i momenti intimi (ricordate quando ci chiedeva il silenzio totale su “Empty Sky” e “You’re Missing”?) e quelli caciaroni (la “Ramrod” di Bologna resta un apice dello sballo). Le differenze esaltavano le caratteristiche opposte dei due filoni.
Lo scorso anno restava una qualche parvenza di equilibrio: ora, complice forse la ripetizione del tour senza disco fresco alle spalle, non c’è più l’ombra non dico del rigore di cui parla Andrea Boido ma nemmeno di un qualche equilibrio.
PRIGIONIERO DI SAN SIRO
Credo che abbia ragione chi ha scritto che il nostro è prigioniero di San Siro: c’è qualcosa di magico là, o di stregato, e si è sentito stavolta ancor più del solito: l’interazione col pubblico… Il muro umano che accoglie la band quando esce sul palco, i cori a 60.000 voci… Cose fantastiche, da brividi, ma che alla fine portano fatalmente Springsteen a fare quasi solo canzoni da cantare insieme.
Eppure, se ci guardiamo indietro, nel 2003 c’era stata “Follow That Dream”; nel 2008, “Racing in the Street”; nel 2012, “The Promise”… Brani storici, memorabili, che segnavano momenti magici, in cui il ritmo si spezzava per lasciare spazio a un po’ di riflessione: Bruce è stato sempre, per me, anche questo… O ci siamo scordati di quando nel 2002 si metteva al piano (l’indimenticabile “For You” di Bologna), e tutti noi sapevamo che QUELLO era il momento del pezzo al piano e sognavamo che facesse “Incident”, o “Racing in the street”, o magari“Lost in the Flood”?
Sì, ha fatto “This Land is Your Land”, ma solo un pezzetto… Mannaggia, mi manca, posso dare per buona per le mie statistiche personali quell’esecuzione? E no, una canzone conta solo se suonata intera! Io me lo ricordo bene il concerto di Bologna 2002… C’era una tensione, nell’aria, che si tagliava con il coltello (merito certamente anche dell’ambiente più raccolto). Quella “Badlands” fu devastante, andatevela a rivedere su Youtube! Ma anche “Darkness on the Edge of Town” a San Siro 2003… Cavoli, e quando alla fine fece “Rosalita”? Io sentii una botta di adrenalina tale che se ci penso me la sento ancora addosso!
Anche negli anni recenti non sono mancati momenti memorabili, interi concerti memorabili: gli ultimi concerti europei del 2012 certo lo sono stati, e credo che anche Napoli e Padova siano stati in una certa misura superiori a Milano, per quanto riguarda l’aspetto musicale. Sinceramente rimango abbastanza stupito a leggere commenti tipo “Abbiamo ballato, abbiamo cantato, ci siamo divertiti, cosa volete di più, in fondo è solo un concerto rock?”: Bruce per me non è mai stato solo un concerto rock, e davo per scontato che così fosse per tutti i suoi seguaci: evidentemente sbagliavo.
SAN SIRO! MILANO! ITALIA!
Bene, cioè male, fin qui il bicchiere mezzo vuoto: però non era vuoto del tutto, anzi. Come detto, il fattore-pubblico è croce e delizia dei concerti a San Siro: detto della croce, è giusto esaltare la delizia… a cominciare dall’inizio, con la coreografia, a seguire con i cori fantastici, credo sia stato il massimo esempio di fusione fra band e pubblico che io ricordi: pur avendo girato mezzo mondo appresso a Bruce, questa sensazione l’ho provata così forte solo qua.
Ogni volta che entro sul prato di San Siro ho la stessa bella impressione, fin da quella prima volta nel 2003: quando fa buio mi sembra di essere in un grande palasport, non in uno stadio all’aperto (un palasport che evidentemente nel 2003 perdeva un po’ d’acqua dal soffitto): sarà per i tre anelli e per quel muro di pubblico che lo rendono più raccolto di qualsiasi altra arena.
La faccia di Bruce e Steve quando vedono quel “OUR LOVE IS REAL” è fantastica; l’inizio del concerto, come detto, mi stranisce un bel po’, ma non mancano certo momenti speciali come l’accoppiata “Long Tall Sally” – “Loose Ends”. Su molti cartelli leggo richieste da favola: purtroppo Bruce li scarta tutti a favore di altri titoli e ci resto un po’ male.
BORN IN THE U.S.A.
“Ogni forma d’arte è essenzialmente energia intercettata” (Jim Morrison) Ci sono dei momenti in cui l’eccessiva stanchezza e il mal di schiena che a tratti mi perseguita mi fanno temere di non essere in grado di apprezzare appieno un concerto del Boss: successe a Stoccolma lo scorso 4 maggio, bello show ma avevo fatto 24 ore di fila, ero stanchino e la presenza di un watusso in transenna davanti a me capace di sovrastare i miei 194 centimetri dall’alto dei suoi 205 mi costrinse in quello scomodo limbo caratterizzato dallo scalino di 3 cm fra la pedanina attaccata alla transenna e il resto del pit con devastanti conseguenze per la postura e la zona lombo-sacrale. A Torino, l’8 settembre 1988, ero disfatto dopo ore in piedi ma Bruce mi rifece nuovo, come se dal palco mi arrivasse un flusso energetico. A Milano lunedì il miracolo si è ripetuto con regolarità ancor maggiore della liquefazione del sangue di San Gennaro: “Born in the U.S.A.”mi ha via via ricaricato!
“Born in the U.S.A.” (la canzone), suonata in quel momento, in apertura del disco omonimo, ci sta 100 volte meglio… E pure “Dancing in the Dark”, slegata da quella posizione incancrenita nei bis, ne guadagna. “Working on the Highway” è uno dei pezzi meglio riusciti della serata, “Downbound Train” e “Bobby Jean” le amerò sempre, tutto il disco lo amerò sempre perché è quello che mi ha fatto incontrare Bruce… Ricordo che lo avevo registrato su una TDK MA-R 46, quelle musicassette pesantissime fatte proprio di metallo, per sentirlo in macchina (quella di mia zia che mi scarrozzava in giro d’estate, perché io la macchina ancora non ce l’avevo…).
Erano girate voci (complice un tweet di Trotta) che avrebbe suonato tutto “The Wild, the Innocent and the E Street Shuffle”: un sogno, ma io ero certo che avrebbe suonato tutto “Born in te U.S.A.” ed è stato logico, giusto e bello che sia andata così, che si sia celebrato quel primo concerto del 1985 cui ero troppo giovane e lontano, ahimè, per partecipare.
FINALE
Dopo “Born in the U.S.A.” Bruce mette, come dice qualche mio amico, il “pilota automatico” e dirige con consumata esperienza verso i bis; citazione sempre d’obbligo per “Shackled and Drawn”, davvero la più bella dell’ultimo album con quel finale grandioso da messa rock. Di “Badlands” si è già detto: sempre una grande canzone, ma ormai la ascolto sognando (invano) che almeno non faccia la ripresa… Dopo aver sentito la registrazione del Paramount Theater
2009 (2009, mica 1978) passo notti insonni sperando un giorno di sentirla suonata così.
“Hungry Heart” arriva quando speravo di essermela risparmiata, fortuna che poi all’attacco dei bis arriva “This Land is Your Land”, purtroppo solo accennata ma sempre bellissima e mai come oggi significativa, seguita da “We Are Alive”, che speravo proprio di risentire, apprezzatissima lo scorso anno.
Di “Twist and Shout” non ne posso proprio più ma dopo il precoce sacrificio di “American Land” arriva ineluttabile: fortuna che per San Siro Bruce ha in serbo qualche omaggio e prorompe in una stellare “Shout” che fa ballare anche le 4 torri dello stadio. Poi, come a Napoli, la “Thunder Road” finale ci strappa in extremis e brutalmente dall’atmosfera festaiola per precipitarci nella sinistra malinconia da “ultimo concerto a San Siro”.
IN MY HEART FOREVER
Una cosa che ricorderò sempre di San Siro 2013 sono gli occhi bellissimi e pieni di lacrime della ragazza bionda inquadrata sul maxischermo durante la “Thunder Road” finale: occhi che una frazione di secondo dopo ho realizzato appartenere a una carissima amica, peraltro… Non so perché questa chiusura, insieme a vari altri particolari, indizi e riflessioni, ha fatto pensare a tutti noi che questo sia stato l’ultimo concerto, l’addio a San Siro.
Sarà stata anche la “Once upon a Time in the West” dei titoli di coda. Sarà stato il filmato celebrativo dei 5 San Siro che scorreva in loop sullo schermo in alto. Sarà che quest’anno non ha detto “Ci vedremo ancora”. Sarà che il ciclo della E Street Band volge al termine, tanto che non viene più celebrata da Bruce come in passato con roboanti presentazioni. Saranno le voci di un prossimo album in stile Seeger Sessions. Sarà che prima, durante e dopo “Thunder Road” è sembrato davvero commosso: giurerei che sull’ultimo “Grazie mille San Siro! Milano! Italia! Vi amo!” mi sembra gli si sia spezzata la voce per l’emozione.
Non so, il futuro ci dirà se è davvero così. Certo Bruce tornerà, in Italia e a Milano, ma senza la band difficilmente tornerà a San Siro: però mi fido di lui e credo che alla fine deciderà per il meglio. A volte bisogna mettere da parte i sentimenti per seguire le proprie tendenze artistiche, il che è esattamente ciò che non è accaduto con questo tour ma forse questo è stato davvero un ultimo giro di commiato, in cui l’importante era fare festa un’ultima volta come ai vecchi tempi, una specie della festa funebre di “Mary’s Place”.
Esco un po’ stordito dallo stadio, saluto i pochi amici che incrocio nel pit ma poi perdo di vista anche quelli; uscito fuori aspetto davanti al cancello 1, guardo sfilare l’immensa fiumana che scorre in direzione di piazzale Lotto cercando con lo sguardo qualcuno dei tanti amici che avevo incontrato durante il giorno o intravisto dentro lo stadio: nessuno. Frugo fra la folla in cerca di un volto familiare ma non ne vedo uno che sia uno. Stranissimo, impossibile. E allora penso che forse è un segno anche questo, che ci sta preciso in questa serata improvvisamente tanto malinconica. Così anch’io volto le spalle allo stadio e mi incammino verso casa.
Ciao Milano, ciao San Siro.