di Alessandra Toni.
Un verso di Born to Run recita così: “I wanna know if your love is wild, baby I wanna know if your love is real”…e dopo più di trent’anni dall’averla scritta, Bruce Springsteen ha ottenuto la risposta.
Sì Bruce, Our love is real. Il nostro amore è reale. Questa è la scritta che campeggiava enorme, nei colori della nostra bandiera, sugli spalti di uno stadio per lui così importante: San Siro. Noi fan l’abbiamo voluto ringraziare così, con un gesto piccolissimo (nonostante l’apparenza) rispetto a ciò che negli ultimi decenni ci ha donato. Perché lui non solo ci ha dato tanto in termini di canzoni, testi e melodie che riecheggiano nelle nostre teste ogni giorno, da anni… ci ha dato tanto in quanto persona, in quanto uomo vero che non si risparmia mai, che non cede e sa trasmettere messaggi importanti capaci di farci sentire una cosa sola, in quel momento.
Questo è Bruce Springsteen. Per noi semplicemente Bruce. Perché ormai lo sentiamo come un amico. L’amico che ti dà consigli e ti mette a disposizione la sua esperienza per imparare qualcosa… l’amico con cui imbracciare una chitarra e, illuminati da qualche accendino o telefono, suonare note leggere e parole profonde… l’amico con cui divertirsi, fare festa, ridere e scherzare. E anche a Milano lo è stato.
Questa era la mia prima volta a San Siro. Per Bruce era la quinta e da sempre sento parlare della magica atmosfera di questo stadio, di una specie di elettricità nell’aria che rende questo posto diverso da ogni altro. Ed è sempre stato lo stesso Bruce a dirlo: famosissimo quel “Milano always Primo” urlato lo scorso anno…una dichiarazione d’amore alla città e all’Italia che ad ogni concerto viene rinnovata.
Anche quest’anno, il 3 giugno 2013, ha più volte urlato il proprio amore e la propria riconoscenza al nostro Paese: questa volta ha detto, quasi sussurrando e tradendo una certa emozione “Since I was a kid, I’ve played in many many places…but this one is special…You are special…I keep you in my heart every time”.
3 ore e 30, 34 canzoni che non ci hanno mai lasciato il tempo di riprendere il respiro. E’ sempre così con Bruce: questo è il mio quarto concerto ed ogni volta, diversa dalla precedente, mi sorprendo del potere che esercita su noi. Basti guardare i volti degli springsteeniani durante il concerto: sugli schermi si alternano sorrisi aperti e lacrime sulle guance di ragazzi commossi su The River e Thunder Road. Già, Thunder Road…
Ma andiamo con calma. Come vi avevo già raccontato nel mio post sul memorabile concerto di Firenze 2012, per me il pit è un’esperienza da provare e così ci sono “ricascata”.
Sveglia alle 4.30 di mattina, in fila dalle 6, lotta per il braccialetto tanto ambito, ore di attesa frenetica e di conoscenza di altri springsteeniani… perché come vi avevo già detto, una delle cose più belle nei concerti di Bruce è conoscere altri nostri “simili”. Tutti noi, infatti, così diversi all’apparenza, in quella giornata siamo una cosa sola e ci scambiamo impressioni ed esperienze: così conosci lo statunitense che vede Bruce per la centesima volta dal 1975, la ragazza al suo primo concerto e piena di aspettative, il gruppo che lo segue ovunque e già freme per le prossime date. Tutti uniti. Per un giorno.
Certo, non mancano i maleducati e gli arroganti, ma questo è un argomento a parte.
Dopo ore di attesa sotto un sole sorprendentemente caldissimo e di chiacchiere su canzoni e concerti passati, eccoci entrare nel Meazza. Un gigante buono che ci accoglie tra le sue braccia ancora vuote, ma che presto si sarebbero riempite ed accese di una passione fortissima. E questo accadrà, dopo qualche ora.
La setlist è ormai cosa nota a tutti: parte con “Land of Hope and Dreams”, passa per le request delle energiche “American Land” e “Long Tall Sally”, arriva alla sempre struggente “The River” che ti lascia un groppo in gola difficile da mandare giù. Ma poi ecco che fa il suo annuncio: in onore della sua quinta volta a San Siro, suonerà tutto l’album che lo portò per la prima volta a Milano, nel 1985: “Born in the Usa”.
Il boato del pubblico fa tremare la terra sotto i piedi, anche se vi confesso una cosa… non riuscirò mai a digerire quell’intero “Born to Run” suonato live a Padova, il mio album preferito. Ma è Bruce e lui si fa sempre perdonare.
E via con le 12 tracks di Born in the Usa, tra le quali per me spiccano Glory Days, Darlington County, I’m on fire e quella No Surrendercosì carica di significato che ti spinge ad urlarne le parole con tutto il fiato che t’è rimasto in corpo.
Piano piano ci avviciniamo ai bis, così sorprendenti e contrastanti di emozioni. Sarà banale, ma per me uno dei punti più alti dei suoi concerti è sempre Born to Run: come già scritto in un altro post, urlare insieme a lui “Tramps like us, baby we were born to run”alzando le braccia al cielo, vale il prezzo del biglietto e della fatica fatta nella giornata.
Poi arriva quella Twist and Shout sempre così carica di energia, anche se c’è da ammetterlo: la storica Twist and Shout fiorentina sotto il diluvio rimane sempre imbattibile. Poi la prima sorpresa: appena suonate le ultimissime note di Twist, ecco arrivare la potentissimaShout che farà saltare lo stadio, lo farà sdraiare per terra (e chi c’era sa di cosa parlo), lo farà divertire con una grande e meravigliosa festa collettiva.
Ma poi, quando ormai tutto sembrava finito e la band era già nel backstage, eccolo di nuovo.
Chi mi conosce sa quanto avrei voluto sentire un pezzo: il mio preferito di sempre, quello che più di ogni altro mi commuove ogni volta:Thunder Road.
E l’ha suonata nella maniera più bella, profonda, intima che potesse fare. Indimenticabile. Luci basse, lui solo sul palco.
Un pugno nello stomaco, dritto al centro, per poi far scuotere il cuore che vibrava insieme alle corde della sua chitarra e alla sua voce… così leggera a volte che pareva volesse sussurrarcela, così possente nei momenti in cui la cantavamo con lui e nel finale.
Tutti noi ci siamo sentiti insieme su quella Thunder Road, pieni di sogni che sembrano alla portata di mano e che riusciremo a realizzare per sentirsi poi vincitori.
Ho pianto. Dio solo sa quanto ho pianto dall’inizio alla fine… perché non era semplicemente un pezzo suonato in un concerto, ma una lezione di vita, un incoraggiamento a salire su quella macchina come farà Mary nella canzone, sostituendo le nostre ali con delle buone ruote e partire per realizzare i nostri desideri e vincere.
E noi, quella sera, abbiamo tutti vinto insieme a lui. Grazie Bruce.