A un quarto del concerto del Boss dell’altra sera a Milano ho pensato: stanotte torno a casa e butto tutti i miei dischi! Poi non l’ho fatto perché sono più di mille e li ho comprati in 25 anni circa di innamoramento per la musica, e 25 anni d’amore è sempre bene non buttarli. Il fatto è che il Boss sul palco produce l’effetto (almeno su di me, ma non credo proprio d’essere il solo) che fa la vita quando hai la precisa sensazione che sta funzionando. E, inutile che ve lo dica, capita molto di rado. Ora, che Springsteen sia il più grande rock performer del mondo è noto. Se per qualcuno non lo fosse, è sempre in tempo ad aggiornarsi ma sappia che in linea assoluta è tardi comunque. Che Bruce sia, in concerto, la prova più potente della distanza che intercorre fra i dischi e la musica suonata, è altrettanto noto. Se per qualcuno non lo fosse, abbiamo una domanda piccola e innocente: ma dove cazzo vivi?! Che Bruce Springsteen & The E Street Band siano la più possente macchina da rock genuino e invidiabilmente attiva nonostante le età non proprio adolescenziali è stato più volte ricordato e suona talmente risaputo da apparire quasi retorico. Se per qualcuno non lo fosse, non abbiamo più speranze, dobbiamo dirvelo… Tutto ciò assodato, e nonostante questo, rischio di faticare non poco a descrivere le tre ore e mezza dell’altra sera.
Chi lo ha visto dal vivo almeno una volta nella vita (quando per qualunque altro musicista si fa il bis di concerti si è dei fan scapestrati, per il Boss si sta cominciando una giovane e ancora maturabile cura del proprio orticello) sa che può convincerti totalmente o anche solo parzialmente la scaletta della serata, ma quello che hai appena visto non lo rivedrai più. Da altri, perché non sono stati evoluzionisticamente creati altri come lui. Da lui, perché ogni sera la scaletta e il dialogo col pubblico, cioè noi, è una chiacchierata unica e irripetibile. Normalmente, anche i colleghi più blasonati preparano ed effettuano una scaletta sola, con al limite rare varianti da una sera all’altra, per tutto un tour. I più sfigati, per tutti i tour della propria carriera. Per il nostro, buttare sul tavolo un centinaio di canzoni diverse a stagione concertistica (come suona stantia questa espressione associata a lui!) è cosa non dico normale, ma ovvia. Eppure non è ancora neppure qui, in questo punto, emblematico quanto si vuole, il centro, il nodo della maestosità di un’emozione springsteeniana. Per nulla. Il nodo, a mio avviso, sta nello scambio bilaterale di energia e di dialogo cui si accennava sopra. Il dialogo con noi. Fan da un concerto soltanto (facciamo penitenza, dai su!!) o da 95 concerti che siano (comincia a suonare adeguato… può piacerci). L’urgenza di dire, e per alcuni di scrivere (!), ciò che si è provato sugli spalti o sul prato di uno stadio, o sul pavimento di una piazza come quella del Plebiscito (bagnata, naturalmente!) di fronte al nostro “Brùs” è forte al punto da richiedere una spiegazione più approfondita del semplice tirare in ballo l’emozione del momento. Voglio dire, noi sappiamo che il Boss non suona la chitarra, la brandisce come una spada nell’ultimo duello della sua vita, ogni sera. Come sappiamo che il microfono nel quale canta non è lo strumento per arrivare all’amplificatore, ma l’ultima speranza, la bottiglia cui si riversa la lettera di SOS del naufrago. E ancora siamo a conoscenza del fatto, se dentro quegli spalti ci siamo stati almeno una volta, che lui e i suoi apostoli (e figli o nipoti degli apostoli) non ci stanno lanciando una morale, una risposta, una possibilità. No. La stanno raccogliendo assieme a noi per lanciarla al cielo. Nel modo migliore che loro, e assieme a loro noi, sappiamo fare in quel momento. Qualche anno fa, in occasione di un’intervista per una televisione italiana (il giornalista era Vincenzo Mollica se non ricordo male), Springsteen disse, a proposito dei concerti, che essi sono, a suo modo di vedere, un qualcosa che sa di antropologico, qualcosa che arriva da molto lontano, una rappresentazione contemporanea di quando chissà quanti secoli addietro ci si raccoglieva attorno a un fuoco e ci si narrava storie e si danzava fino allo sfinimento. Quel fuoco, quella comunione, quello sfinimento sono da ricreare ogni sera, di fronte a ogni singolo falò. Ma la riuscita di questo dipende da fattori imponderabili, lo sappiamo bene. O meglio, che molto poco possono avere a che fare con una scaletta, o con semplici, per quanto importanti, questioni tecniche. Poi certo, si conosce la maniacalità del nostro per la preparazione, le prove, la ricerca del modo ogni volta migliore per arrivare a noi, la costanza per il lavoro. Ma tutto ciò, isolato dal contesto della meta, dal fulcro di quelle notti antiche, perde calore. E un falò senza calore… inutile spiegare, no?…
Ecco, quello che tento di dire dalla prima riga di queste parole al vento è che in qualche modo l’emozione che porta uno come me a pensare di buttare tutti i propri dischi perché gli sembra siano muti di fronte a una serata in compagnia di Bruce, è un’emozione che non può essere generata soltanto da una voce, leggendaria quanto si vuole (e che tiene per 4 ore dopo 63 anni di storia, voglio dire!), oppure da un assolo, dall’incastro accattivante di una scaletta (fra l’altro, pregasi presentare esempi di colleghi cui si abbia notizia raccolgano decine di richieste di fans e le esaudiscano a fiotte ogni sera…), da una batteria pestata a sangue come quella di Max, da una bandana sulla testa di un amico chitarrista per la vita, da una scenetta dolce con un bimbo che canta Waiting on a sunny day sulle spalle del Boss/papà, da una ragazza che balla e strimpella una chitarra acustica di fianco a qualcuno della “E” Band.
Tutto meraviglioso e unico, nessuno lo nega. Ma cercare il Boss per due, cinque, dieci, venticinque, settantacinque concerti come fosse una dose di droga purissima di benessere, e portarsi appresso questa fedina emotiva attaccata alla pelle all’altezza del torace per mostrarla orgogliosi a chicchessia, preparare una coreografia su tre anelli di uno stadio e coinvolgere all’unisono 20.000 persone, facendogli tremare le ossa dall’emozione -ne sono sicuro dalla faccia che gli ho visto nel maxi-schermo- è la prova che vi è dell’altro, che vi è qualcosa partito prima e che finirà molto dopo di ciascuno di noi, in quelle serate. In queste serate. Quel qualcosa è ciò che come gruppo, in qualche modo -permettetemi- come gruppo umano, ecco, come gruppo umano abbiamo bisogno di urlare, di dimostrarci, di essere. Una domanda. Ciò che di più potente esista fra le cose degli uomini. Una domanda che forse non ha risposta, ma che nel momento in cui trova qualcuno capace di portarla assieme agli altri più in alto di quello che saremmo capaci se fossimo soli, ha, ogni volta per una manciata di ore soltanto, una speranza in più d’essere ascoltata. Io ho l’impressione che Bruce faccia questo. E per questo per lui dimenticherei volentieri tante altre cose. Ho l’impressione che Bruce ci prenda per mano, e al tempo stesso abbia bisogno delle nostre mani, per trasportare la nostra domanda di donne e di uomini più in alto del solito steccato di tutti i giorni, perché da soli è difficile essere visti, ma tutti insieme…