di Laura Bianchi.
Inizio dalla fine
Del resto, so bene come ribaltare le prospettive e i cuori. Non faccio altro, da più di quarant’anni, ormai.
Così, stasera inizio dalla fine. Inizio dall’abbraccio di San Siro, e dal mio bacio enorme. Ci stanno sessantamila cuori, nel mio bacio. Inizio dal mio ultimo sguardo a questo muro umano che si para davanti a me, arreso, potentissimo e fragile, felice e ingenuo, un unico cuore pulsante, appassionato e violentemente innamorato della vita, come me. Un unico corpo, composto di santi e peccatori, madonne e puttane, vittime tutte di un disperato bisogno di sognare, che so come trasformare in realtà.
Li guardo tutti, e so che tutti si sentono guardati, uno per uno, fin nel profondo della loro anima. So che li ho invitati a una festa di oltre treoremmezza. La festa sconfinata che è diventata questo concerto, l’ho pensata e voluta proprio così, portando quei cuori, e il mio, e i nostri, in una mirabolante montagna russa di emozioni.
Doveva essere una festa, questa sera, e festa è stata. Sono riuscito a fare quasi sedere a terra l’intero prato, a fare muovere l’ultimo spettatore dell’ultima fila dell’ultimo anello, a fare cantare sessantamila persone prima forte, poi piano, poi di nuovo forte, a far loro agitare le mani, ridere, tacere, ballare, saltare, piangere, godere, sospirare e gridare.
Sono stato l’amico più affettuoso, l’amante più fedele, il figlio più simpatico, il nonno più arzillo, il direttore d’orchestra più esperto, il maestro più comprensivo, il compagno di scuola più leale, il medico più competente e il confessore più comprensivo. Sono stato tutto questo, per tutte le treoremmezza, come se il tempo non fosse mai passato, da quel 1985, che mi aveva visto qui per la prima volta, e rincorrendo le stesse emozioni, ricreando la stessa alchimia. E ce l’ho fatta, esorcizzando, facendo tacere, dentro di me, il mio essere più vero. Quel ragazzo di periferia che ha seguito i suoi sogni immaginandoli reali, e facendoli succedere, prima nel suo cuore, poi nella realtà, insieme a…a chi, ora, non è qui con me.
Sono stato tutto questo, per tutte le treoremmezza, perché questo muro umano lo meritava, perché senza di lui nemmeno io esisterei così come mi penso. Gli ho regalato brandelli di felicità, spruzzati attorno come gocce d’acqua in una sera d’inizio estate, che rinfrescano e fanno subito stare meglio, anche se poi si asciugano.
Ma ora, ora che siamo arrivati, insieme, alla fine, regalo un ultimo sguardo a questo muro umano, pieno di amore e struggimento e, finalmente, nostalgia. Torno ad essere quello che sono, lo specchio dei sessantamila cuori di fronte a me, o dentro di me: arreso, potentissimo e fragile, felice e ingenuo, io lui, e lui me. Dal primo fan del pit, avvinghiato alla transenna, fino all’ultimo spettatore, in piedi nell’ultima fila dell’ultimo anello. Perché così funziona, quando i sogni sono reali.
Quando scendo dal palco, gli occhi sono lucidi. I loro, i miei. E questa è vita.