Due parole su Darkness on the Edge of Town che oggi compie 45 anni, tratte dal libro “Abbassa quello stereo” di Alberto Calandriello.
Nel film del 1985 “Fandango”, Kevin Costner ed i suoi amici nel corso di un viaggio non solo “chilometrico” recuperano nel deserto una cassa dove dentro avevano seppellito una bottiglia di champagne e scaraventandola da una alta rupe brindano a loro stessi.
Da quando mi sono chiesto che senso avesse l’esibizione di Bruce e la band in un teatro vuoto a rifare per intero ed in ordine esatto Darkness on the Edge of Town in occasione del cofanetto, questo è il paragone a cui sono arrivato.
Il DVD da la chiave di lettura al cofanetto, perché fondamentalmente dice una cosa: siamo qui, 31 anni dopo e queste canzoni sono cresciute con noi, non ci hanno mai lasciato ed oggi le ritroviamo qui, fresche e vere come allora.
Bruce e la band dicono semplicemente questo: SIAMO ANCORA QUI! Anzi dicono anche DARKNESS È ANCORA QUI!
Darkness on the Edge of Town, inutile ricordarlo, segna il passaggio, magari gradualmente già accennato nel disco precedente, dal ragazzo vagabondo che cerca una sua via d’uscita all’uomo che d’un tratto vede il mondo con occhi nuovi e spesso vede ciò che non vorrebbe vedere.
Darkness come rabbia, lotta, come crescita dolorosa, assunzione di responsabilità o quantomeno presa di coscienza di queste ultime.
Darkness come primo sguardo al di là del piccolo mondo dove il giovane Bruce aveva ambientato i suoi primi tre dischi, come impatto con le badlands, con i poveri che vogliono essere ricchi, i ricchi re e via andare.
Darkness come accorgersi che è meglio essere nati senza niente, perché appena hai qualcosa vengono a portartelo via. Darkness come consapevolezza del peccato, del male, di essere alla fine un caino, di aver ereditato peccati e fiamme.
Darkness che trasforma ed imbastardisce il runaway dream di Born to run, di cui resta solo il dark heart.
Darkness, buio, come quello che c’è fuori quando la gente esce per andare in fabbrica a perdere l’udito e ogni giorno un pezzo di anima.
Darkness, buio, come il corridoio da attraversare se vuoi arrivare alla stanza di Candy, per un amore forse solo ipotetico, sognato, desiderato, alcuni ipotizzano addirittura mercenario.
Darkness, buio, da dove senti chiamare il tuo nome senza capire chi lo stia facendo.
Darkness, buio, illuminato da un fuoco che non da vita come capita in altre canzoni, ma brucia pensieri e volontà, di perdenti che su certe strade stanno morendo.
Darkness, buio, solitudine, dove il personaggio della title-track, magari lo stesso di Meeting Across the River, che si immaginava la scena di lui che butta soldi “sospetti” sul letto mentre la sua donna capiva che non stava “solo parlando”, ora ha perso tutto, compresa la moglie, ma sarà su quella collina, perché non può fermarsi.
Darkness sembra alla fine quasi un manuale di sopravvivenza, che ha come obbiettivo ultimo il vivere, il resistere, il non arrendersi, non come quelli che “semplicemente rinunciano a vivere e muoiono pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno”.
Bruce ha resistito, non si è arreso ed oggi è lì su quel palco spoglio, davanti ad un teatro vuoto (vuoto NON perché nessuno lo ascolta, ma vuoto perché su quelle sedie possiamo starci TUTTI) a dire che da quell’oscurità, da quei margini si può uscire.
Anche per questo Darkness è un disco ATTUALE, un disco VIVO, che viene riproposto dagli stessi musicisti che lo incisero nel 78, perché è VERO OGGI, ADESSO.
È soprattutto CREDIBILE anche cantato da sessantenni, cosa non semplice nel rock.
È credibile perché parla di uomini, di ragazzi diventati uomini, di vita adulta. Darkness non è una celebrazione di tempi andati, è vita, non è passato, è presente. È qualcosa che devi sempre aver chiaro, in testa, come appunto una specie di manuale delle istruzioni.
Darkness è il momento in cui Bruce capisce che andarsene dalla città dei perdenti non è facile, ancor meno lo è farlo vincendo.
Darkness ci viene presentato con una trasparenza, una sincerità, una attenzione che dimostrano quanto di Bruce ci fosse e ci sia ancora in quei solchi.
L’importanza di quel disco sta nelle rughe, nella fatica a stare in piedi, nella calvizie delle persone che lo hanno risuonato 31 anni dopo e soprattutto che per 31 anni hanno continuato a suonarlo.
Se cerco nella musica una spiegazione, una via, una direzione, un consiglio, il primo a cui mi sono rivolto, mi rivolgo e soprattutto continuerò a rivolgermi sarà sempre Bruce Springsteen.
Ed il fatto che sia l’autore di questo album in effetti influisce sulla mia decisione.