The River, oggi

di Dario Greco.

Volevo un album che combinasse l’aspetto divertente di quello che sapeva fare la band, con la storia che avevo in mente di raccontare.

The River è il quinto album di Bruce Springsteen, pubblicato il 17 ottobre 1980. Le scelte in studio di un autore, determinano spesso la sua carriera e il suo destino. The River immortala il sorprendente ritratto dell’artista giovane e ambizioso, quale Bruce Springsteen è sempre stato. Un giovane e già maturo autore, capace di catturare le sonorità che stava cercando di ottenere in studio, praticamente fin dal suo esordio. Non è casuale se in questa nuova e pericolosa avventura, chiami a raccolta la sua band, responsabilizzando il suo fraterno consigliere, Steven Van Zandt, qui anche nelle vesti di produttore artistico. 

Il disco diventerà The River, uno dei doppi più celebrati della storia del rock. Bisogna però riflettere, a livello retrospettivo (e a noi oggi questa cosa è concessa!) su come sarebbe cambiata la carriera di Springsteen, se avesse inciso e pubblicato brani di successo come Fire e Because the Night, oppure se avesse scartato o pubblicato in altra forma, le sue hits: Hungry Heart, Cover Me, Dancing in the Dark e Born in the USA. Probabilmente staremmo parlando ora di un altro artista, con un impatto mediatico e un successo commerciale e popolare sicuramente inferiori. Le cose però sono andate come dovevano andare. The River è infatti il primo disco dove il suo autore evita di scartare brani dal potenziale pop e commerciale indubbio, come appunto Hungry Heart, prima singolo di successo nella carriera del suo autore. Da quel momento le cose andranno in modo molto diverso.

Voleva essere una riflessione sul significato dell’età adulta. Una vita che non era la mia, ma che osservavo dal di fuori e che per molti versi ammiravo, dirà lo stesso Springsteen, a proposito delle liriche che compongono a livello tematico il suo quinto lavoro in studio. Lo scopo è ambizioso quanto ostico: scavare dentro sé stessi per tornare a galla con un pugno di canzoni efficaci e grondanti di vita vera. Per farlo c’è bisogno di calarsi fino al midollo in qualcosa che non ci appartiene e che non è affatto divertente. Solo i grandi autori di canzoni e di romanzi ne sono davvero capaci. Per molto tempo si è discusso circa il realismo e la capacità di questo autore di raccontare il verismo dell’american way of life. Oggi ci può sembrare un po’ scontato, ma nel 1979, quando scriveva il testo di The River e dei brani che avrebbero costituito l’asse portante del suo primo disco doppio, la cosa non era così ovvia. Ancora una volta i personaggi vengono posti di fronte a ostacoli per vedere come si comporteranno. Anche se rispetto alla comunità sotto assedio di Darkness, stavolta il clima alterna momenti di resa a fasi di battaglia più concitate. Anche sotto questo punto di vista Springsteen appare più lucido, concentrato e pronto a muoversi in diverse direzioni, apparentemente in contraddizione tra loro. Sarà proprio questa la chiave di svolta della sua carriera, dove saprà calibrare da buon gommista convergenza ed equilibratura, per gareggiare sulla strada dell’hit parade, rispettando comunque il proprio codice morale e artistico. Anche qui il tempo ci ha detto che Springsteen con The River è stato capace di vincere la sua sfida musicale, ma nel 1979 questo discorso era davvero lontano dal traguardo. Ma un disco è fatto anche di momenti, di passaggi a vuoto e di cose più o meno riuscite. Figuriamoci un doppio album così intenso e verace. Suonato nel vero senso del termine e non con i soliti turnisti e session-men abituati a dare un certo spessore alle incisioni. In questo caso ci troviamo in un magma sonoro e di anime differenti. Springsteen però sa di avere alcune carte vincenti da giocare. A giudicare dai momenti solisti affidati a gente come Max Weinberg, Roy Bittan e ancora di più a Clarence Clemons e Danny Federici, possiamo dire che l’audacia precede abbondantemente la consapevolezza. Danny Federici si esibisce in riff di organo capaci di mettere ko il sistema nervoso di ogni ascoltatore provvisto di empatia e di emozioni basilari. L’assolo di Fade Away è una sfida che non tutti gli appassionati di pop music possono superare senza pagare con qualche lacrima.

Come se non bastasse in questo disco troviamo altre gemme capaci di sciogliere anche i cuori più duri e puri, come Independence Day, Point Blank, Drive All Night e naturalmente la title track, The River: la canzone più struggente di tutti i tempi. Musicalmente delicata e sublime, appassionata per la tematica, cantata con una intensità che raramente abbiamo potuto ascoltare nella popular music. A distanza di 40 anni trasuda ancora sangue, nervi, fluidi e flussi vitali. Una ballata che sa di acqua, ma anche di sudore, lacrime e rinuncia triste. Non ci sono dubbi, alla luce di una carriera così longeva e ricca di successi, che la canzone in cui sboccia con maggiore vigore lo Springsteen adulto, come voce e come autore, sia proprio The River. Ed è quasi come se in questa occasione l’autore abbia consapevolezza di aver scritto un classico capace di sovvertire e mutare per sempre la sua carriera di songwriter. Non è certo casuale se The River, nel corso degli anni, abbia assunto una tessitura più complessa, come le tante diramazioni di un possente fiume in piena, sarebbe il caso di dire. Non che l’autore non avesse già scritto brani strutturati in maniera narrativa, ma qui si avverte con maggior vigore e impatto la capacità di condensare un’ampia sequenza, degna di un romanzo.

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