Lucky Town, oggi

di Dario Greco.

Nessuno è mai stato me. Può darsi che io sia il primo. Sono ormai giunto a questa conclusione: – Le storie capitano solo a chi le sa raccontare. Forse il calore che avevo perso con le persone esisteva ancora. Forse il colore di questa giornata deriva da questo. Quei giorni sfuggenti sono ormai lontani e alle mie spalle, ma osservare le tracce che ho lasciato mi aiuta a motivare il debole che oggi sono. Terrò tutto nelle profondità della mia mente fino a quando attraverserò le stagioni, fino a ché non ritroverò la mia splendida ricompensa.

Era una spenta e malinconica mattina, eppure mi aveva immerso nella luce dei giorni migliori. Avevo una giacca di fine pelle e stivali di serpente, ma quella giacca aveva sempre un filo che pendeva libero. Così una sera l’ho tirato e con mia grande sorpresa mi ha condotto fino a casa tua e oltre la collina. Conoscendoti ho scoperto un nuovo mondo. Di certo era interessante, di certo era accogliente, ma non posso però affermare di stare nel mio naturale ambiente. Io sono un dominatore del caos e un uomo che tenta di conquistare ogni notte la sua fortuna, partendo da zero, rischiando con passi affrettati. A volte il trucco riesce e la magia ti riempie gli occhi di stupore, ma più spesso sono costretto a riparare nella mia tana con le pive nel sacco. Ho combattuto per ottenere qualcosa e ora mi sento un uomo libero. Diretto verso la città della fortuna, diretto verso i miei giorni migliori. 

Dico ciò perché l’artista che si ripresenta davanti al suo pubblico in quella primavera del 1992 è un uomo nuovo, ma sorpresa, sorpresa, non solo lui è cambiato. Infatti in quel momento tutta la musica, specialmente quella americana stava cambiando radicalmente. Ci sono nuovi generi che stanno tenendo banco o sono in procinto di decollare, il grunge su tutti e ci sono nuovi suoni e nomi che stanno uscendo dall’anonimato per tentare la scalata al firmamento. “Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era tempo di fede, era tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza”, come direbbe Charles Dickens. 

Un fiume meraviglioso nella valle di fronte. Là sotto il ramo della quercia ci sposeremo. Se ci dovessimo perdere, tra l’ombra degli alberi della sera, io ti aspetterò. E se dovessi rimanere indietro io, tu aspettami!

L’artista che si ripropone prima di tutto al suo pubblico, forse con la speranza di acquisire nuovi clienti, è un uomo nuovo. Si è liberato di tanti fardelli, ha una nuova compagna con cui ha deciso di mettere su famiglia e spera anche la testa a posto. Eppure non tutto fila liscio come dovrebbe. Ci sono cambiamenti che non hanno giovato come avrebbero dovuto. La ricerca di una nuova band di accompagnamento ha lasciato un solo superstite della gloriosa macchina da guerra che risponde alla E Street Band. Pare del tutto casuale che il superstite fosse proprio Roy Bittan, eppure sarà in qualche modo la sua ancora di salvezza di un tour non certo memorabile e di due dischi accolti in modo tiepido.

Tra i due album quello che ha un legame con il vecchio cuore springsteeniano e forse qualche speranza di sopravvivere oltre questa fase “sperimentale”, sembra essere quello più agile e semplice: Lucky Town. Parte forse con una doppietta a base di soul, folk e rock. Bruce Springsteen in questa occasione tira fuori una voce nuova, calda e nasale. Insieme alla voce si affida alla sua chitarra elettrica e punta sull’essenziale. Il disco però avrà anche momenti meno gagliardi e furenti, ma non per questo meno belli e validi. I toni diventano dimessi con le ballate, una delle quali riuscirà a resistere al tempo, l’altra sarà forse dimenticata dai più, ma non certo dagli amanti di questo Lucky Town. A distanza di trent’anni questo disco deve necessariamente essere rivalutato, per il suo valore artistico, ma soprattutto per quello che ha rappresentato. Ha posto di fatto le basi per una carriera artistica parallela come solista, senza la E Street Band. Al suo interno trovano spazio brani urgenti e coerenti con il passato, ma soprattutto capaci di fare da ponte e veicolo per ciò che sentiremo più avanti, lungo la strada. Living Proof, Book of Dreams, Soul of Departed, The Big Muddy, ma anche altre cose come Leap of Faith o Local Hero. In Lucky Town tutto trova un significato e va a posto, miracolosamente, così come in Human Touch era risultato invece sfilacciato e un po’ costruito per gli standard qualitativi del suo autore. 

Forte, tempestoso e risoluto, dipinge un uomo che scende a patti con l’idea del dono e della condivisione dopo essersi dedicato in modo ossessivo alla sua carriera musicale. Per molti questo sarà nella migliore delle ipotesi un pareggio a reti inviolate, mentre col senno di poi, Springsteen evita, in modo brillante, il disco da rockstar  intenta a fare l’inventario delle sue fortune. Eroe, mito e leggenda hanno ancora una possibilità di tornare alla ribalta. A conferma di ciò il suo prossimo lavoro risponde al nome di The Ghost of Tom Joad, inutile aggiungere altro. 

Stanotte posso sentire il vento freddo sulla schiena, sto volando alto sopra i campi grigi grazie alle mie piume lunghe e nere, così giù lungo l’argine silenzioso del fiume sto planando. (Bruce Springsteen, My Beautiful Reward)

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