di Dario Greco.
Con We Shall Overcome: The Seeger Sessions, Bruce Springsteen torna alle sue radici. In più di un senso. Questo disco segna infatti il ritorno a un metodo di lavoro domestico, nella stessa modalità con cui aveva ottenuto opere di valore come Nebraska e Tunnel of Love.
“Era come una giostra, il suono della sorpresa e la semplice gioia di suonare. Un ritorno all’informalità e all’eclettismo della musica dei miei inizi.” Springsteen accenna qui ai suoi primi dischi, come metodo di lavoro e di registrazione, presumibilmente. In effetti si respira aria di festa, un progetto felice e divertente, ma anche impegnato e di altissimo profilo. Non è un caso se in quello strano 2006 il disco venga salutato con grande entusiasmo dal pubblico e con i giusti favori di una critica per una volta ben imbeccata. Qui troviamo un band leader che strilla i cambi di accordo, con musicisti capaci di suonare senza spartito e senza prove formali. Buona la prima, basta che ci sia la scintilla della creatività. Un po’ secondo il metodo di lavoro di Bob Dylan e di tanti altri artisti che suonano nel solco e nella tradizione ricca e mutabile del folk. A volte però più che il country o la jig sembra di sentire una fusion tra E Street Band e Pogues. La cosa che colpisce è come Springsteen riesce a far suo uno stile che apparentemente non gli appartiene. Ma siamo seri: esiste davvero un genere di musica americana che non è nelle corde di un musicista così eclettico? Springsteen durante la sua carriera ha davvero suonato e scritto di tutto. Oltrepassando generi, confini, leggendo a naso mappe e sentieri inesplorati. Qui nelle vesti di trovatore e archeologo se la cava niente male, tanto che alla fine parlerà di questa esperienza come una delle più tonificanti di sempre. Sarà un caso?
È un disco importante anche per un motivo triste: fu proprio qui che Springsteen troverà un degno sostituto per l’organista Danny Federici: Charles Giordano. Il merito però è soprattutto della violinista Soozie Tyrell. Fu lei a reclutare la band che si mise a suonare nella fattoria di Springsteen nel New Jersey.
Il disco nella sua versione American Land costituita da 18 tracce è una vera delizia. Si arricchisce di vigore e di potenza sonora di fuoco. Violini, percussioni, fiati e ottoni sono sempre ben a fuoco, sugli scudi. Eppure si ha l’impressione di un lavoro rilassato, quasi svagato, da clima di festa un po’ alcolica. Questa è la cifra stilistica, questo rende We Shall Overcome: The Seeger Sessions un diamante grezzo, unico nel suo genere e nel canzoniere springsteeniano. Le canzoni selezionate vengono da genere e ambiti differenti, ma tutto è mischiato alla perfezione, con la cultura e la sensibilità musicale del trovatore. In questi anni abbiamo ascoltato dischi molto belli come Trouble No More di John Mellencamp, ma questo primo lavoro targato Seeger Sessions ha l’agilità, la potenza e la forza dei giovani leoni. Sembra una cosa stile Mumford & Sons, per intenderci, con le delicatezze di Calexico e una spruzzata alla Avett Brothers. Qui e là sbuca fuori Dylan, lo stesso Pete Seeger e Woody Guthrie, perfino il Night Tripper, Dr. John. Insomma siamo dalle parti del genere Americana e le radici affondano un po’ dappertutto, ma ovunque questo disco suoni o si sposti becca una pepita d’oro, uno zircone o qualche altro materiale di valore e di qualità assoluta. È un disco che trasuda carisma, anima, sa di legno buono e di chi riesce con leggerezza a sollevarsi e a librarsi sullo spirito della migliore musica statunitense, pescando qua e là anche dalla tradizione e dal folklore europeo. Chiunque dovrebbe ascoltarlo e usarlo come colonna sonora di una festa. C’è dentro la vita e c’è dentro una rilettura affascinante di quello che l’umanità è stata e che con coraggio e consapevolezza può ancora essere. Grazie per la lezione di vita e di musica, Professor Springsteen!
La critica su We Shall Overcome: The Seeger Sessions
Non c’è mai stato nulla di simile nella carriera di Springsteen. Dapprima senti un violino e una chitarra che duellano come quelli dell’Hot Club de France negli anni Venti, mentre un attimo dopo ecco la marcia funebre della Crescent City in tutto il suo splendore.
Questo è un tribute album folk-gospel con armonie e ritornelli così potenti da far pensare all’intera popolazione del Jersey in Technicolor in marcia sul grigio fiume Hudson.
Giusto quello che scrive Dario e illuminante il titolo che pare connettersi al live seguente. Le Seeger Session e il tour a seguire dimostrarono quanto i brani autografi fossero connessi ai tradizionals e come certe pagine di Bruce potessero integrarsi alla perfezione con tutto quel materiale. Fu entusiasmante come disco e dal vivo uno dei tour più belli al quale assistetti. Le Seeger Session non furono una semplice parentesi e molto più della gioia di divertire e divertirsi. Dietro a quel calderone vi erano gli spiriti della Repubblica Invisibile di Greil Marcus, nonché tutta quella gente cantata in American Land ed evocata qualche anno dopo in We’re Alive.
Armando Chiechi