di Dario Greco.
Ascolto Bruce Springsteen da quando avevo 16 anni. Un capellone smilzo di periferia silenziosa, come del resto lui stesso era stato. Cantavo in una scalcagnata rock and roll band. Proprio come lui, più o meno…
Crescendo ho imparato ad apprezzare altro, a sentire musica di diverso genere, estrazione, stile e strumento. Però il legame con la musica del Boss è sempre rimasto integro. Credo ci sia qualcosa nelle sue canzoni di Sacro, qualcosa di ancestrale. Il potere primitivo del timbro. Basta riavvolgere il nastro e lasciar ripartire un brano come Something In The Night, Adam Raised A Cain, e ancora meglio Streets Of Fire. Sì, avete indovinato è stato utilizzato come titolo per un film di Walter Hill. Ciò che probabilmente non sapete e che lo stesso cineasta statunitense aveva pensato a questo titolo per il suo cult movie del 1979, poi cambiato dalla produzione in un più comprensibile The Warriors. Storia del cinema e del rock, permettendo! La voce di Bruce Springsteen è un urlo ancestrale di furore e brama di vivere. È il grido di battaglia della classe media e del proletariato bianco americano.
Non a caso su lui la definizione di blue collar music calza a pennello. Una delle cose più affascinanti del personaggio di Bruce Springsteen è secondo me l’aderenza ad un tessuto sociale e urbano molto preciso. Ancora di più la sua appartenenza a un clan. Il parallelismo con la pellicola di Walter Hill, The Warriors, è sempre stata evidente per me, ben prima di conoscere il legame tra Darkness on the Edge of Town e questo bellissimo e oscuro film, basato sull’Anabasi di Senofonte e tratto dal romanzo omonimo di Sol Yurick. Sono storie di gang giovanili, come ha raccontato molto bene Richard Price nel suo romanzo del 1974 The Wanderers. Un altro possibile parallelismo possiamo trovarlo con il primo Martin Scorsese, l’autore di Chi sta bussando alla mia porta, Mean Streets e Taxi Driver. Si pensi a brani come Lost in the Flood e Jungleland, per intenderci, mentre un brano inedito, Zero and Blind Terry, poi pubblicato su Tracks, raccolta del 1998, fa emergere il tentativo di riscrittura di un’altra pellicola molto amata dall’autore di Born To Run: The Wild One (Il Selvaggio) con Marlon Brando, già citato nel brano It’s Hard to Be a Saint in the City. Eppure nessun Capo potrebbe dirsi tale senza l’ausilio e l’apporto di una gang illustre come la E Street Band. Un gruppo eterogeneo di Good Fellas del rock and roll, una band che poteva contare su personaggi di diversa estrazione etnica e sociale, magnifico crogiuolo degno di un’epopea stile Birth of a Nation di David Wark Griffith.
Danny Federici, italo americano, Max Weinberg, ebreo, Clarence Clemons, afroamericano ed ex campione di football, Garry Tallent, wasp originario di Detroit, Vincent Lopez, ispanico, Steven Van Zandt, vero cognome Lento, originario di Lamezia Terme (Cz). Questi e molti altri ancora sono stati i compagni di viaggio di una vita per Bruce Springsteen. Musicisti formidabili dotati di grande affiatamento, cuore e cameratismo, che possiamo sentire tra i solchi dei suoi lavori, passati e presenti. Un aspetto che a mio parere è sempre mancata un po’ a tutti i solisti, da Bob Dylan a Van Morrison, da Tom Waits a Jackson Browne. Avere simultaneamente una carriera solista e una band di supporto così solida e coesa, quasi una famiglia del rock, un po’ come lo era stato nel country la The Carter Family. Con la sola eccezione per il compianto Tom Petty, che con i suoi The Heartbreakers è stato capace di attraversare quarant’anni di heartland rock, a livelli eccelsi.
Proprio così. Pur avendo perso due degli elementi originari della band, in uno degli ultimi lavori in studio, High Hopes, Bruce Springsteen ha recuperato alcune tracce risalenti alle sessions di The Rising, 2002, dove possiamo ancora sentire il sax di Clarence Clemons e le tastiere e l’organo di Danny Federici. Quest’ultimo musicista ritenuto, da chi meglio conosce la musica di Bruce Springsteen, uno degli elementi chiave per il suo apporto essenziale e fondamentale alla band. E così grazie ad una produzione moderna, ma al contempo “vecchia scuola”, tra feedback, picking and tapping di Tom Morello e la voce sempre calda e ruggente di Bruce, abbiamo avuto per un’ultima volta la possibilità di sentire la leggendaria E Street Band al completo. Non solo: una E Street Band potenziata dal furore della sei corde di Morello! Già, Tom Morello degli Audioslave e dei RATM, un musicista apparentemente distante anni luce dalla visione e dall’universo springsteeniano. Di certo il suo stile caratteristico di suonare la chitarra, tra armonizzazioni, modulazioni e feedback, poteva far storcere il naso allo zoccolo duro dei fan storici di Springsteen.
In realtà è bastato vederlo e sentirlo all’opera, con un brano come The Ghost of Tom Joad, per cambiare repentinamente punto di vista. Morello assieme a Jack Clemons, nipote del compianto Big Man Clarence, è stato in ordine cronologico, l’ultimo acquisto della Band. Non solo, visto che Springsteen lo ha addirittura definito la sua Musa, in termini musicali e per l’impegno politico e civile. In questo lavoro, High Hopes, c’è un pezzo che mi ha colpito più di altri, si chiama Harry’s Place ed è un brano caratterizzato da un suono cupo che fa molto anni novanta. La canzone racconta una storia piuttosto noir, la quale ricorda certi ambienti della malavita irlandese ripresi anche da Martin Scorsese nel film The Departed e che ci rimandano per certi versi a un brano epico e granitico come Murder Incorporated, una outtakes di Born in the USA, ripescata per il Greatest Hits del 1995 che faceva riferimenti alla Anonima omicidi o Brownsville Boys, un gruppo di killer perlopiù italiani che compì una sequenza impressionate di omicidi a pagamento tra gli anni trenta e gli anni quaranta negli Stati Uniti. In Harry’s Place emerge uno stile duro e chitarristico che imprime al brano il volere e l’essenza della band, quasi come uno stile di vita che si perpetua. È quel rock che può ancora salvarti la vita, un metallo pesante e poco raffinato capace di ricordare quella Reason To Believe di springsteeniana memoria che forse non ha più alcuna ragione di esistere. Bruce Springsteen con un’operazione nostalgica, ma azzeccata, riporta ancora una volta in auge tutto ciò, perché in fondo è l’ultimo romantico di quel rock and roll vecchio stampo, uno di quelli per cui basta avere un batterista cazzuto e una Telecaster attaccata alla spina per far crollare giù un muro.
Mitologia del rock and roll, di quello vero, quello dove possiamo ancora credere al fatto che ci sarà magia nella notte, questa notte. Stay hard, stay hungry, stay alive… and if you can… stay rock!