di Gianni Pennesi.
Perché la morte non è la fine.
Lo ripetevi spesso e io ammiravo la fiducia con cui ribadivi questa convinzione, talvolta perfino ti invidiavo.
Prima di andartene mi dicesti che ci saremmo rivisti nei sogni, che avremmo di nuovo passeggiato, riso e cantato agitando una bottiglia di birra vuota come fosse un microfono. Ti aspettavo ogni notte ma tu non venivi. Mi coricavo pensando a te, facendo si che la tua immagine fosse l’ultimo pensiero della giornata, ma sognavo solo incubi tristi nei quali tu non c’eri mai. All’opposto, talvolta mi sforzavo di non pensarti affatto, sperando che poi tu mi facessi visita per compensazione, ma non funzionava nemmeno così. Mi ero perfino ridotto a prendere dei sonniferi, convinto che tu mi stessi aspettando nei sogni che si fanno nel sonno più profondo, quello dove io non arrivo mai. Ma non stavi neppure lì.
Per molto tempo ho pensato che mi avessi abbandonato e in principio mi sono arrabbiato perché mi avevi fatto una promessa senza mantenerla. Per molto tempo ho covato un groviglio di emozioni tristi, nel quale intrecciavo delusione, solitudine, rabbia, malinconia, rassegnazione. Per molto tempo ho creduto che non avrei mai superato l’ostacolo della tua assenza. Per molto tempo ho perfino sperato di dimenticarti, di estirpare il tuo ricordo dalle mie cellule che, ostinate, ne servavano memoria. In alcune occasioni ti ho perfino odiato e ho desiderato non averti mai incontrato né voluto bene. Eppure, ogni secondo, mi mancavi.
Per molto tempo sono stato rassegnato, finché un giorno non ti ho sentito.
Ero seduto in veranda, sfogliavo distrattamente una rivista mentre sorseggiavo il caffè. Il cielo era limpido e l’aria frizzante del mattino pizzicava la pelle. Mi ero stretto nel giaccone e avevo guardato per alcuni istanti la coltre di neve che si stendeva oltre il granaio, per tutta la valle, fino all’orizzonte. Fissai troppo a lungo il paesaggio immacolato perché a un certo punto il bianco della neve illuminato dai raggi sbilenchi del sole mi aveva abbacinato, costringendomi a chiudere gli occhi. Ed era stato allora che ti avevo sentito.
Prima il rumore dei tuoi passi, inconfondibile per via di quegli assurdi stivali con tacchi cubani che ti ostinavi ad indossare sempre, d’estate come d’inverno. Poi il rumore della cerniera del tuo cappotto che chiudevi sempre adagio, come se volessi lasciare al freddo l’opportunità di abbracciarti qualche istante ancora. Infine il cigolio della sedia che usavi di solito, prolungato anch’esso, come se perfino la sedia ti stesse abbracciando.
Ho atteso un istante prima di aprire gli occhi e quando l’ho fatto non ti ho visto. Eppure sapevo che c’eri, lì davanti a me, immobile, mentre scrutavi l’orizzonte con i tuoi occhi penetranti ridotti a due fessure strette strette.
Ho sorriso, coccolato dalla tua presenza invisibile ma potente. Non ho provato a chiamarti né ho aperto bocca, mi sono limitato a gustare quell’istante breve di vicinanza che mi ha ripagato dei mille sonni inquieti durante i quali ti avevo atteso invano. Non so dire quanto tempo sia rimasto così, immobile per paura che l’incantesimo svanisse: forse qualche secondo oppure ore intere. Infine ho richiuso gli occhi spinto dalla speranza di sentirti ancora, ma ho udito solo silenzio: già non c’eri più. Ho sorriso di nuovo, senza aprire gli occhi, e solo allora mi sono accorto delle lacrime che rigavano le guance ispide di barba.
Da quel giorno il tuo fantasma mi fa visita tutte le mattine. Esco in veranda, sorseggio il caffè, fisso a lungo la distesa di neve baluginare per tutta la valle finchè non mi bruciano gli occhi e sono costretto a chiuderli. Ed è allora che il tuo fantasma arriva.
Giorno dopo giorno, ai rumori della prima volta se ne sono aggiunti altri: lo sfrigolio del fiammifero con cui accendevi la prima sigaretta della giornata, lo sbuffo con cui ravviavi la ciocca di capelli ribelle che ti scendeva davanti gli occhi, lo strofinio delle tue mani sui calzoni mentre tentavi di scaldarle, il tintinnio della campanella sopra la porta che stuzzicavi con la punta delle dita quando ti stiracchiavi, la vibrazione del telefono con i primi messaggi della giornata sistematicamente ignorati. E poi ancora: il colpo sordo della stecca quando giocavamo a biliardo nel club giù in città, lo schiocco delle lattine di birra che bevevamo al drive in, le parole sussurrate mentre carezzavi la criniera del tuo cavallo, il crepitio delle foglie secche sotto i piedi quando uscivamo per una passeggiata, il tonfo della portiera e la musica subito a tutto volume quando saltavi di corsa sul pickup per andare al lavoro.
Ti ho ascoltato ogni mattina ed era come se ti vedessi. Per lunghi mesi queste immagini mi hanno consolato perchè mi restituivano un po’ di te e riempivano il vuoto che avevi lasciato senza però colmarlo del tutto finchè, da mezzo pieno, il bicchiere è diventato mezzo vuoto. E allora ho iniziato a volere di più: le rughe della tua mano, il profumo dei tuoi capelli, la consistenza beffarda del tuo sorriso quando baravi a Scarabeo, i tuoi discutibilissimi gusti musicali, la pila di libri acquistati, letti di fretta e mai messi in ordine. Ogni volta che attraversavo il tinello e la vedevo più alta, ti rimproveravo borbottando che l’avresti fatta arrivare fino al soffitto. Ma ne non hai avuto il tempo.
Ora che ho finalmente realizzato la tua assenza nella sua brutale crudeltà, sento il bisogno di scrivere una lettera per te, vergando la parole con l’inchiostro e con il sangue che mi sono ritrovato sulle dita dopo aver scavato a lungo nella mia anima alla ricerca di una risposta che non c’era. Alla fine ho preso tutto quello che ho trovato: dubbi e paure, gioie e dolori, mattine di sole e giornate di pioggia, poi ho messo tutto in una busta senza francobollo e ho aspettato che il vento la portasse via, la portasse da te. Mi piace pensare che quella busta stia ancora volteggiando, che abbia attraversato mari e montagne, superato indenne le burrasche e il sole ardente, sfarfallando nel cielo indomita e determinata, arsa dal desiderio di trovarti e spaventata dal timore di perderti di nuovo.
La neve ormai si è sciolta e i pendii della valle sembrano più dolci, colorati con fantasie coraggiose nelle quali si mescolano infinite tonalità di giallo, di verde e di blu. Al mattino esco in veranda senza giaccone perchè il freddo è svanito. E col freddo sei svanito pure tu. Non mi cruccio però, perchè ho imparato che sei sempre con me, anche se non ti vedo, anche se non ti sento. Sei con me quando accatasto la legna nella baracca dietro casa, sei con me quando porto da mangiare ai cavalli, sei con me quando apro l’ultima birra della gioranta, sei con me quando mi accoccolo al camino leggendo un libro. Forse ti farà ridere sapere che ho preso il tuo stesso vizio e ora anche io ammucchio i libri sulla pila nel tinello, quella che avevi iniziato tu. Il soffitto è ancora lontano, ma mi sto avvicinando.
Stanotte ti ho sognato. E’ stato un attimo, ci incrociavamo in cucina, tu mi fissavi per qualche secondo e infine bisbigliavi: Perchè la morte non è la fine. Poi un rumore dal piano di sotto mi ha svegliato, ho sceso di corsa le scale ma non c’era nessuno, poi ho visto la pila di libri rovinata in terra, il pavimento coperto di pagine e copertine. Ho capito subito che era opera tua, il tuo modo bizzarro per dirmi che mi vuoi bene. Te ne voglio anch’io. E ora so che hai ragione.
La morte non è la fine, ma solo un passaggio.