di Paola Annoni.
Io non so scrivere di musica. Non ne ho le conoscenze, le capacità, nemmeno il talento. Ho cominciato a mettere il naso nella musica buona solo un anno fa e Springsteen ha monopolizzato tutte le mie attenzioni, quindi no, non sono in grado di parlare di musica come chi con le parole sa emozionare e far sentire le note mentre si legge un foglio bianco.
Però so parlare di emozioni, quello ho imparato a farlo. E di emozioni sulla strada di Stoccolma ce ne sono state tante, emozioni nuove, totalmente sconosciute per me.
Andare all’estero per vedere un concerto già è folle. Per Springsteen ancora di più. Incontrare amici al Gate , sapere di essere lì tutti per lo stesso motivo e sentire quella strana sensazione di avere qualcosa in comune anche se non sai nulla di quelle persone, se non che hanno il tuo stesso fuoco che arde dentro, anche se di concerti ne hanno visti decine più di te.
Sono a casa. E sulle mani lavate decine di volte c’è ancora l’ombra dei pennarelli indelebili con cui i disorganizzatissimi svedesi scrivevano l’ordine di arrivo e determinavano il tuo spazio per le tre ore di concerto. File. Fila ufficiale? Siamo tra i primi cinquecento del primo giorno. Secondo gruppo. Terzo. Fila non ufficiale del secondo giorno. Mi aspettavo che almeno ci fosse scritto qualcosa su questo braccialetto viola di plastica. Ma forse sono solo manie mie, da raccoglitrice di ricordi compulsiva.
Transenna. Ancora. Mi piace troppo stare lì sotto, anche se sono di lato (la parte centrale è sempre dei pazzi che scelgono di fare gli appelli ad orari improbabili per tre o quattro giorni di fila e tenersi scritto sulla mano il numero più basso possibile). Quando passa di lì Bruce lo senti vicino, come se dopo davvero ci fosse la possibilità di fare due chiacchiere fino a tarda notte. Lui è lì. Non è da divinizzare, è fottutamente umano. E’ fottutamente vivo.
E poi semplicemente si spengono le luci, e io chiudo gli occhi e mischio inesorabilmente pensieri ed emozioni di due serate così nettamente diverse tra loro. La domanda fatta più spesso? Ma i concerti non sono tutti uguali? Oh, no. Proprio no.
Luci. Comincia lo spettacolo. La setlist la trovate ovunque. Le vibrazioni che partono dalla pancia ed esplodono nel cuore… Quelle no.
Le chitarre del Boss sono tutte sbucciate, logore. Ve ne siete accorti? Come se fossero quelle da sempre, come se la sua musica potesse uscire solo da lì perché lì su c’è nata, come portare in giro tuo figlio sulla macchina in cui hai fatto l’amore mille volte, sognandolo. Credo sia quello. Magari si sono rovinate sotto l’acqua di Firenze dello scorso anno, portano le ferite di guerra. Sono più belle, sono sue. Le impugna con forza, con quelle dita piccole e un po’ tozze. Sono una donna, a queste cose ci guardo. Ci gioca, ha una grazia divina nel farlo, come se non avesse impugnato neanche una forchetta in vita sua. Solo chitarre. Forse è così, una mano sempre sulla Fender.
In uno stadio da 65.000 persone Bruce riesce a farti sentire intimo con lui. È difficile da spiegare. Sotto al palco lui si avvicina, si butta in mezzo, raccoglie idee su come trasformare una data qualunque del tour in “ti ricordi quel concerto pazzesco?”. Hai sempre l’impressione che dopo potresti incontrarlo a farsi una birra al bar dello stadio che ti chiede “vi è piaciuto stasera?”.
Lui è lì per il pubblico, ma il suo spettacolo è fatto anche dal pubblico. Ci gioca, raccoglie richieste assurde, ride dei cartelli più strani, magari scritti sul cartone di un frullatore trovato per strada.
“Mountain of Love”. Aggrotto le sopracciglia. Guardo il mio ragazzo, springsteeniano onnisciente. Sorride “è una cover, ma è bellissima”. Bruce è impacciato. Prova gli accordi, mastica le parole altalenando sulla melodia. Non se la ricorda. “Ok, ci sono”. Come in quelle serate in cui c’è un amico che strimpella la chitarra e qualcuno gli chiede “la sai quella…?”. Ma lui è il Boss, ed ha davanti 65.000 persone. Ed è lì, che gioca. Si diverte ad accettare
sfide. A vedere le persone che si sciolgono dall’emozione mentre il suo cartello passa dalle loro mani alle sue. E magari su quel cartello c’è scritto “vuoi suonare a due chitarre con me?”, e Bruce ti prende per mano e ti porta sul palco. E così quella ragazza è salita sul palco, ha suonato con lui, e probabilmente le sue mani stanno ancora tremando di gioia.
Come le mie gambe e credo quelle di tutti dopo Open all Night. L’ho dovuto filmare. Perché è proprio quel Bruce che fa impazzire tutti. E’ energia pura, calore, è il motivo per cui sei lì. Alla fine è bellissimo vedere i concerti, cantare le tue canzoni preferite, guardare uno show che comunque andrà sarà sorprendente. A vedere Springsteen ti ricarichi le pile, ti senti vivo e quella carica te la porti dietro per giorni, a volte mesi.
C’è qualcosa di profondamente magico in quello che fa. Sembra avere il maledetto dono di saper toccare le tue corde nei punti scoperti, negli angoli bui. Ti sa parlare come un amico che ti mette la mano sulla spalla e ti dice “dai, beviamo qualcosa” perché in quel bicchiere sa già che ci saranno parole da condividere, dolori da sciogliere, sogni da ricostruire. In questi giorni ho pensato spesso alle parole di un’amica che raccontandomi un po’di scelte di vita, decisioni impopolari, sogni e desideri futuri mi fa “beh, se non fossi così non ascolterei Springsteen e non mi terrei la sua faccia sorridente attaccata in camera, quelle parole se non le mettessi in pratica non avrebbe senso di essere ascoltate”. Mi ha spiazzata. Forse per questo ho ascoltato, cantato e ballato una Badlands che ogni giorno sento sempre più mia. Ma forse queste parole sono di una banalità disarmante.
Non banale è vedere nel pit ragazzini accanto a sessantenni ballare scatenati. C’era un tizio, piccoletto, rigidissimo. Evidentemente il suo La è stato Seven Nights to Rock. Scatenato. Delizioso.
L’ho detto e scritto più volte a chi non capisce cosa c’è di tanto emozionante a vedere e rivedere Bruce in concerto. Lui si diverte. Da morire. E tu ti senti protagonista perché ti diverti con lui e se sculetti come lui lo farà anche lo svedese accanto a te e magari quello dietro si divertirà a guardarti e si sentirà meno solo a muoversi come se nessuno lo guardasse.
“Balla come se nessuno ti stesse guardando, canta come se nessuno ti stesse ascoltando”. Twain probabilmente ha la gastrite nell’oltretomba ogni volta che queste parole vengono scritte da un teenager su Facebook. Ma probabilmente si consola guardandomi ad un concerto.
E poi lo sguardo di Jake fisso negli occhi di Bruce. Non riesco a togliermelo dalla testa. Un ghigno, uno sguardo che sembrava una sfida. Born to run? Thunder road? Non mi ricordo nemmeno cosa stessero suonando. E quegli occhi, due parole del Boss dette sottovoce. È un gioco delle parti, un canovaccio su cui è scritto solo “date il meglio, ma godetevela”.
Serve scrivere qualcosa sulla bellezza di aver potuto ascoltare tutto Born to Run e Darkness in the edge of town? Non credo. La pancia mi si contorce ogni volta che la traccia quattro di Born to Run suona, figuriamoci vedere le dita di Springsteen che affondano sui tasti della chitarra e il suo viso si contrae nella sua smorfia dai denti stretti. E sento il sangue che bolle quando la traccia quattro è quella di Darkness. The blood rushes in my veins.
Ho stretto i pugni e incrociato le dita sperando in una Blinded by the light fuori programma, una bollente Fire o un’acustica It’s hard to be a saint in the city. Ma alla fine è stato perfetto così.
Quando sei sotto al palco l’unico desiderio è di diventare parte della storia. Tua, di Bruce, di quel popolo springsteeniano da cui i fucking die hard amano distaccarsi. Perché le storie di Springsteen di entrano sotto pelle e vorresti chiudere solo un attimo gli occhi e sentire il velluto dei sedili di un auto che ti accarezzano la schiena. Ed essere straordinario.