“Il mondo dello scrittore è colmo di materia” scrisse Flannery O’Connor nel saggio sulla scrittura Nel Territorio del Diavolo. L’affermazione dell’autrice georgiana, così tanto amata dal Boss, può essere coniugata anche volgendo lo sguardo all’universo e al ruolo di chi compone musica. Il suono è un mondo materico che si è fatto lampo nell’aria e più materia raccoglie per tradurla più esso si fa corpo lavico e trascinante.
Il mondo di Bruce Springsteen è fatto di materia sparsa per le culture che fanno tutte insieme dell’America una nazione. “Storyteller che perpetua la tradizione tanto dei bluesmen quanto dei folksinger”, lo definisce Ennio Morricone nella bella introduzione al volume Bruce Springsteen Come un Killer Sotto il Sole – Testi scelti 1973-2017 (Mondadori) a cura di Leonardo Colombati. Eppure citare il blues appare addirittura limitativo perché la storia di questo grande musicista lo rivela profondo conoscitore della musica nera nel suo complesso, dal soul al rhythm‘n’blues, dal funky financo al rap, senza chiudere la porta al jazz ovvio. E se il rock resta la sua prima dimora, lo è solo come sintesi degli altri linguaggi.
Mi tuffo di nuovo nelle braccia della citazione: “Bruce Springsteen è il perfetto equilibrio tra il sentire la musica e capirla”. Parole di Mark Knopfler. Equilibrio che si può raggiungere solo afferrando per bene nelle mani la sbarra della conoscenza che permette di passare incolumi da un luogo all’altro del trapezio. Conoscenza delle fonti, mica di una sola perché, per scrivere il Grande Romanzo Americano con suoni e liriche, non ci si limita a osservare le increspature che, nel corso del tempo, si sono posate sui fregi di un singolo cancello d’entrata. Per di più col puntiglio di mettersi al lavoro con la precisione della filologia musicale, fondamentale quanto l’entrare in una cultura e raccoglierne confetti e fango.
Questa seconda parte della trattazione è incentrata su tre album (Human Touch, Lucky Town, We Shall Overcome: The Seeger Sessions) e due canzoni Tenth Avenue Freeze-Out e Land of Hope and Dreams. Per questi ultimi due episodi mi farò accompagnare dal compagno di viaggio The Soul Roots of Bruce Springsteen’s American Dream, l’eccellente saggio di Joel Dinerstein.
Human Touch & Lucky Town
I dischi ai posti più bassi della scala di gradimento degli appassionati del Boss. E questo è poco o niente male nella valutazione di un compositore. Ma se l’autore stesso sottolinea (addirittura in un discorso alla Hall of Fame) che la scarsa valutazione del pubblico gli suggerì di non essere molto bravo a scrivere canzoni felici, questo aiuta a comprendere come i ventiquattro pezzi registrati con “l’altra band” dopo aver licenziato i suoi e-streeter (Roy Bittan escluso) e usciti in due dischi distinti il 31 marzo 1992 non furono che un tentativo. Un tentativo di dare una forma alla felicità in qualche modo.
Ma in questo spazio non contano i pareri. Qualunque giudizio possa dare un musicologo qui importa solo mettere in risalto quanto questi due titoli siano a pieno regime nell’assunto di fondo e cioè la centralità del black world nell’intima poiesis sonora springsteeniana. A ben vedere più il primo del secondo, ma per ragioni storiche vale la pena prenderli in coppia.
Intanto la band. Ritorna David Sancious e il Boss si avvale del bassista Randy Jackson. Poi le voci di Sam Moore e Bobby King. Una negritudine specifica, che successivamente in tour verrà decisamente addizionata. Ma sono le canzoni ad arrivarci con un suono diverso, frutto di un percorso musicale inedito. Un suono che, per quanto mediato da un musicista bianco che nuota nel brodo primordiale del rock, pesca spesso nel mondo afro-americano.
Soul, rhythm ‘n’ blues, gocce di funky (se non quando dance) e buone dosi di blues. Cogliamo la raffinatezza ritmica e l’abbellimento elegante di Human Touch, gli accenti freschi di All or Nothin’At All, l’architettura spiritual di Leap of Faith, la contaminazione pop-soul di Real Man (immaginatevela eseguita da Martha & The Vandellas), la vena sermoneggiante di Soul Driver e Real World, i fluidi ricami acustici in If I Should Fall Behind, la slide nerissima e il cantato litanico in The Big Muddy, la voce sempre modulata che sostiene lo sferragliante blues ipnotico in Soul of the Departed, i Settanta “ballerini” di Roll of the Dice impreziositi dal contorno di un piano gioioso. E, a far da collante a tutte le composizioni, un canto raramente così pieno nel colore e impreziosito da una timbrica secca, a tratti asciugata.
Abbellimenti eccessivamente appesantiti, questa la critica maggiore che storicamente si porta appresso la coppia di dischi. Con a latere una seconda: questo non è il Boss. Se la prima è una questione di formazione musicale personale, mi permetto di considerare senza senso la seconda. Se per una volta ci accostiamo alla musica di Springsteen senza avere nelle orecchie cosa fu fino a quel giorno del 1992 la musica di Springsteen, ricaviamo un ascolto ricco proprio perché inzuppato di black music.
Musica dall’andamento brioso e scattante con effetti ritmici orecchiabili talvolta ben spostati all’interno dello stesso tempo, soul “dagli occhi blu” (come veniva chiamato questo genere, ma anche il r’n’b, suonato da musicisti bianchi) che diventa un insistente beat anche grazie a un cantato tirato, chiamate e risposte tra le voci come accadeva nei grandi gruppi vocali con un (e, più spesso, una) lead vocalist, ipnotiche parti che si armonizzano con trame ripetitive in una miscela circolare che, con le dovute proporzioni e cautele, negli anni a venire avremmo poi ascoltato in tante stelle e stelline nere in percussivi pezzi urban street.
Nella sua autobiografia Born to Run, non una parola su questa doppia uscita. Un capitoletto sull’organizzazione del seguente tour mondiale. A parte Bittan e King (voce soul dura e pura), Springsteen per i concerti scelse una squadra caratterizzata da una forte presenza di cantanti e musicisti neri capace, “di creare un groove pazzesco”, per sua stessa ammissione. Crystal Taliefero, ad esempio, chitarrista, sassofonista, percussionista e cantante dalla forte presenza scenica. Poi Zach Alford alla batteria (scelto per come sapeva destreggiarsi nell’universo funk), Tommy Sims al basso, Cleopatra Kennedy e Carol Dennis che, sempre secondo le parole del Boss, “ci offrivano la loro anima gospel”.
E qualcosa si ricava anche da un aneddoto, raccontato da Springsteen: lungo il tour per lui fu tutto un ascoltare Ohio Players, Parliament-Funkadelic, Chi-Lites, Delfonics, Harold Melvin & The Blue Notes grazie ai nuovi compagni di suono. Gran bordate di funk e Motown quindi, campo che ammise di non conoscere al pari di altre espressioni musicali. Un cammino così esplicito che non avrebbe più percorso.
We Shall Overcome: The Seeger Sessions
A prima vista sembrerebbe la celebrazione del folk bianco. Il nome di Pete Seeger, il titolo stesso che riprende il celeberrimo pezzo girato di bocca in bocca dall’inizio del secolo scorso tra la gente del popolo e fatta conoscere al mondo intero da Seeger stesso (il quale la imparò da Zilphia Horton, moglie bianca del cofondatore della Highlander Folk School), ballad che raccontano di storie oscure come solo il country ha saputo mettere in musica.
Invece, siamo nel 2006, quasi un decennio dopo aver riunito a sé i roots bluegrass Gotham Playboys e trasformati in Seeger Sessions Band con l’aggiunta di altri musicisti, esce questo bizzarro disco. S’intitola We Shall Overcome: The Seeger Sessions e contiene ballate dell’Ottocento e del primo Novecento, molte delle quali nel repertorio dell’autore di cui il disco vuole essere grata memoria viva.
Così come nel 1980 The River aveva raccolto in un doppio album la summa di venticinque anni di rock, questo album spariglia sin dal primo ascolto le impressioni create dalle notizie in anteprima (e al divertito stupore contribuirà con piacere aumentato il successivo doppio Live in Dublin, episodio tratto della conseguente tournée) ponendosi come una sintesi omnicomprensiva di buona parte dell’intera storia musicale americana, un’opera che si anima anche di armonie, ritmi, melodie e drammi della popolazione afro-americana.
Il disco (ma forse si dovrebbe parlare al plurale stante l’autonomia di quello tratto dal concerto nella capitale irlandese) è un suono della madre terra. Modellato con gran rispetto della tradizione e nell’alveo della creatività del suo autore. S’incrociano e si mescolano folk, spiritual, gospel, dixieland, bluegrass, New Orleans sound, r’n’b, blues, il soul che abbiamo apprezzato grazie alla leggerezza dei gruppi degli anni Sessanta, qua e là compaiono pure gocce di cajun e klezmer. Gli abbellimenti sono molto ricchi, vivaci e spesso in uptempo, con archi e ottoni veri protagonisti della scena per una parata sonora inebriante.
E dal vivo l’esplosione solare abbatte ogni muro. Emergono le voci nere di Cindy Mizelle e Curtis King a cui Springsteen piazza il contrappunto quelle maschili dei fiatisti. Canta Marc Anthony Thompson (aka Chocolate Genius), eclettica voce profondamente spiritual, canta Curtis King la cui gentile vocalità completa la nuova forma “caraibica” della non-seegeriana Love of the Common People. Scrive Marina Petrillo nel suo Nativo Americano: “Le arene e palazzetti diventano chiese di Harlem con This Little Light of Mine (…) e a Verona la Sessions Band esegue un brano che è passato dalle versioni del reverendo Gary Davis e di Blind Willie Johnson fino a quella dei Grateful Dead, If I Had My Way (Samson and Delilah): Bruce ne realizza una versione torrida per contrabbasso, percussioni e voci, l’ennesima dimostrazione della natura sensuale che per lui è inestricabile da queste ‘canzoni sacre’”.
Le canzoni raccontano di vite molto complicate e, quando coinvolgono il popolo nero, sono di una forza drammatica assoluta (Pay Me My Money Down e Joe Henry ad esempio). Il Boss allora organizza il suo script facendo perno su una costante coralità tra strumentisti e cantanti. Da qualche parte (e immaginate dove) ha imparato che la coralità aiuta a disegnare crepe nel mistero che accompagna l’essere umano sin dai suoi primi passi sul pianeta Terra, crea uno stupore incantato, apre i cuori a una dimensione celeste, amalgama il pubblico verso un unico orizzonte, potenzia il singolo con l’effetto di liberarlo dalle sue ansie e preoccupazioni.
Sembrerà un controsenso, ma questa sarabanda sonora è molto più vicino al silenzio di tantissime espressioni artistiche minimali. Fuori dai luoghi comuni, la partecipazione a una funzione afro-americana (funerali compresi) è un’esperienza in grado di dare testimonianza all’empatia sottolineata.
Tenth Avenue Freeze-Out
Un ragazzo alienato a New York City che si salva formando una band. Un r’n’b in levare con i fiati che lo impennano (grazie a un’intuizione di Steve Van Zandt). Come sostiene Dinerstein, l’esecuzione live di questo brano è importante quanto il brano stesso. Springsteen parte seguendo la lirica nelle prime strofe, tre minuti prima che il predicatore occupi il palco. Incomincia una messa da cui tracima la potenza sensoriale della liturgia. Il cantante/narratore grida il suo bisogno di comunità, ripete più volte “it’s all right” (e il pubblico risponde a ogni verso nella stessa chiave e tono), poi invoca un’immagine biblica, quel “take me to the river” molto vicino al canone soul evocato dal classico “wash me to the water” di Al Green, infine esplode in un crescente “I said yeah, yeah, yeah… take me to the river tonight” lasciando che il boato della folla si alzi al cielo.
Una scena comune alle esortazioni dei predicatori afro-americani che dimostra quanto Springsteen bene padroneggi il repertorio black evangelico: ripetizione, invocazione, chiamata e risposta, coscienza socio-religiosa, teologia, liberazione. Ecco servito il rock ‘n’ soul.
Land of Hope and Dreams
Sempre seguendo la traccia di Dinerstein, siamo alla visione mitico-contemporanea di un Rinascimento nazionale. Springsteen si appropria della metafora del treno, tradizionale nella cultura della black community, con tutta la potenza eroica delle grandi ruote che conducono alla terra della speranza e del sogno. Immagine che, in musica, nasce con lo spiritual ottocentesco The Gospel Train passando per la celebre hit This Train di Sister Rosetta Tharpe, People Get Ready (There’s a Train to Jordan) di Curtis Mayfield a cui fa seguito un corposo elenco.
Ma il modello springsteeniano è ancora una volta James Brown, in particolare la sua Night Train, un jump blues del 1961. Il musicista del New Jersey ne capta il groove esaltandone la polifonia ritmica e, come nel pezzo del Godfather of Soul, a differenza della tradizione nera il “suo” treno non è disponibile solo per i pii e i meritevoli, ma per tutti. Anche per le puttane, i peccatori, i giocatori d’azzardo, i vagabondi notturni. Tutti a bordo. “Let me see your hands” urla dal palco.
Si ricongiunge all’universo afro-americano nel verso “la fede sarà ricompensata”, dove il termine “fede”, come il rituale soul insegna, è depennato dal suo profilo dogmatico e settario assumendo una connotazione laica che, a livello individuale, incoraggia l’autorealizzazione dentro però una comunità di scopi. Sempre restando sulle pagine di Dinerstein, con Springsteen il twist bianco entra nell’ontologia soul permettendo la sintesi della visione del musicista: il sogno americano non è consumo né radicale individualismo, ma democrazia partecipata e giustizia sociale alla base.
Una visione d’assieme, totale, che include e non distingue. E che aiuta a capire meglio il senso di una frase pronunciata da Springsteen all’epoca di The Ghost of Tom Joad: «Quando sarò nella tomba proverò una grande consolazione all’idea di essere stato l’anello di una lunga catena».
Bellissimo articolo e per me fondamentale, in quanto reputo la componente black nella musica di Springsteen non affatto secondaria…anzi, anche da un punto di vista legato alla performance vocale, Bruce e’ quello che meglio sa dare una continuita’ al soul, dove magari altri suoi colleghi riescono meglio con altri materiali, come poteva fare Petty con il blues e Mellencamp con il country-folk.
Armando Chiechi