Bruce Springsteen, musica non solo per bianchi (Parte 1)

di Corrado Ori Tanzi.

Una battuta che risale al 1975, attribuita al giornalista Robert Christgau, dice: in un concerto di Bruce Springsteen ci sono più afro-americani sul palco che tra il pubblico. Ora, visto che da quell’anno Clarence Clemons era rimasto l’unico nero nella E Street Band dopo l’uscita di David Sancious ed Ernest “Boom” Carter, la direzione della freccia era chiara: la musica del Boss è per soli bianchi.

Una battuta segnalatrice più di un tema ancora piuttosto inedito nella storiografia del musicista del New Jersey che rivelatrice di una verità passata sotto traccia. A cui si potrebbe rispondere con un’altra di segno inverso, pronunciata nel 2009 dal conduttore televisivo Jon Stewart al Kennedy Center Honors: «La verità è che James Brown e Bob Dylan hanno avuto un figlio, e che quel figlio è Bruce Springsteen».

Basta mettere occhi e orecchie in direzione corretta per renderci conto quanto il mondo afro-americano faccia da sempre parte del bagaglio culturale di Springsteen. Come ben sottolinea Marina Petrillo nel suo prezioso Nativo americano – la voce folk di Bruce Springsteen (Feltrinelli, 2010), “la sua anima nera è la costante più ricca e fluida del suo lavoro”.

James Brown, Sam Cooke, Ray Charles, Marvin Gaye, Little Richard, Chuck Berry, Eddie Floyd, i Broadways del suo amico Robert Conti entrarono nel suo universo già ai tempi del boardwalk di Asbury Park così come il suo tempo veniva composto da bianchi e neri per quanto le sue radici lo portavano in Irlanda e in Italia. Ma l’identità è un marchio che sorpassa le radici. Si alimenta di aria annusata al momento, di volti incrociati e fermati, di voci che entrano nella testa, colori del presente. E di musica. Infinita musica che sale dai marciapiedi. E con quella musica Springsteen si battezzò subito per sancire un legame spirituale, un connubio grazie a cui di quel mondo avrebbe assorbito perfino la grammatica rituale.

Un segreto aperto

Per sua inclinazione, oltre che per immenso talento, sin dagli esordi Springsteen si è mostrato artista per cui è vitale accostarsi e assorbire ogni forma e sostanza di espressioni creative che mostrano di sé una comunità di sangue. Nel suo illuminante saggio The Soul Roots of Bruce Springsteen’s American Dream (2007), Joel Dinerstein, saggista e professore alla Tulane University, scrive: “Se inquadriamo Springsteen non attraverso il tema delle sue canzoni ma la filosofia dei suoi concerti e l’investimento che ci mette nel muovere le platee verso l’affermazione esistenziale e la giustizia sociale, allora lo possiamo vedere come l’euro-americano avatar della tradizione soul afro-americana”, citando certo James Brown nell’empireo dei suoi eroi musicali ma, sottolineando una frase di un giornalista del New Jersey (di cui non fa il nome), andando pure oltre: “Ha la voce di Smokey Robinson nella testa quando si mette a scrivere canzoni”. E Dinerstein non manca di ricordare l’omaggio proprio a Robinson che Springsteen fece durante le registrazioni VH-1 Storytellers (2005) quando, dopo aver eseguito Waitin’ On A Sunny Day, si buttò in una seconda versione dimostrando come il leggendario cantante soul e rhythm and blues la avrebbe interpretata.

Più di dieci anni prima, il 7 luglio 1981, durante un concerto a Stoccolma, Springsteen aveva concluso un’introduzione-confessione a Independence Day con queste parole: «Era come in quelle canzoni dei Drifter e Smokey Robinson, contenevano una promessa, la promessa di una vita decente».

Smokey Robinson

Boe nere in mare agitato

Sin dalle sue prime composizioni Springsteen inserì nel grande mare del suo rock evidenti boe di musica nera, parti essenziali dell’intera scrittura e non mero, per quanto delicato, abbellimento. Gli spunti jazzistici e soul in The E Street ShuffleKitty’s BackNew York City Serenade, la chitarra gioiosamente funky per quella scorribanda che è Blinded By The Light, fino all’esempio più evidente, e cioè Tenth Avenue Freeze-Out (a cui verrà dedicata nella seconda parte uno spazio più consono) consentono di identificare radici ben precise nel background dell’allora giovane musicista.

Anche più avanti in carriera, Springsteen ha continuato quel cammino, facendo ad esempio parlare le sue chitarre Gibson o Takamine attraverso i cigolii alla maniera dei grandi maestri blues, dedicandosi a una partitura scavata, a tratti ossificata se non proprio rasa al suolo. Parlano in questa direzione l’insuperabile Nebraska (compreso il blues autentico nelle vene dell’originale versione di Born in the Usa per cui era stata composta), il pìceo Devils & Dust, ma anche canzoni singole come Good Eye a cui possiamo aggiungere il soul gospel che fa da architrave a My City Of Ruins.

Solo qualche esempio. A capitoli come Human TouchLucky TownWe Shall Overcome: The Seeger Sessions o a canzoni quali Land of Hope and Dream e la già citata Tenth Avenue Freeze-Out saranno dedicati l’intera seconda parte della trattazione.

A questi aggiungiamo una manciata di gesti raccolti qua e là a testimonianza della sua naturale propensione non solo a scavalcare muri, ma proprio a creare ponti tra culture identitarie che sente come contigue e irrimediabilmente sue. Il suo lavoro in album come Dedication e On The Line di Gary U.S. Bonds, la Protection che Donna Summer interpretò con la stessa naturale nigrizia dance di hit come Hot Stuff o I Feel Love, la parte rappata di Rocky Ground eseguita da Michelle Moore, voce del Victorious Gospel Choir (collaboratrice col Boss anche in The Promise e High Hopes e in un paio di album della di lui consorte Patti Scialfa), la dolorosa American Skin (41 Shots) sul brutale omicidio di Amadou Diallo a opera di quattro poliziotti nel Bronx il 4 febbraio 1999, col conseguente boicottaggio dei concerti del Boss della stessa polizia e il vomito versato dai più fanatici sostenitori delle forze dell’ordine.

Springsteen con Michelle Moore

Due gesti

Fuori dalla musica tornano alla mente due episodi. Il primo è il sostegno pubblico a Barack Obama, il 16 aprile 2008. È il giorno del confronto in TV tra due candidati democratici. Springsteen non aspetta le primarie. Obama è ancora solo un senatore dell’Illinois e semplice candidato alla presidenza, neanche favorito vista la popolarità di Hillary Clinton. Eppure rompe gli indugi con una lettera civile e appassionata.

L’altro è accaduto più di dieci anni prima, il 27 ottobre 1996. Senza che qualcuno glielo abbia chiesto e senza che lui abbia avvisato qualcuno si presenta a Los Angeles a una manifestazione di protesta organizzata dal reverendo Jesse Jackson. L’oggetto è la Proposition 209, l’atto che vuole cancellare le quote preferenziali per i neri nelle assunzioni, rimedio provato per cercare di debellare l’immane disoccupazione che colpisce gli afro-americani. A chi gli chiede il motivo dell’improvvisata Springsteen risponde: «Ogni tanto bisogna alzarsi in piedi e dire: “Ehi, aspetta un momento”. La Proposition 209 è pessima».

Springsteen con il Reverendo Jesse Jackson

Una visione condivisa

Springsteen coltiva un’idea di comunità più vicina a ciò che esprime il gospel che a Woody Guthrie. Una spinta sociale/spirituale che nasce sì nelle chiese cristiano-metodiste, ma che presto si laicizza in una coralità che porta la buona novella tanto nelle case quanto nei night club e nei luoghi di lavoro. Cantore e coro senza che l’uno possa fare a meno dell’altro. E così la sua musica s’impregna di un’evidente carica religiosa senza mai farsi canto sacro, almeno nella comune accezione che diamo dell’attributo. Nel suo saggio Dinerstein tocca l’esempio di Open All Night, nella parte finale del testo, un tocco lirico particolarmente ispirato.

Radio’s jammed up with gospel stations/ Lost souls calling long distance salvation/ Hey mister deejay won’t you hear my last prayer/ Hey ho rock’n roll deliver me from nowhere.

Il guidatore-narratore s’imbatte in una stazione radio gospel. Ha bisogno di libertà. Per tornare a sentirsi giovane o solo per mantenere la macchina dritta sulla strada. E grida la sua necessità di salvezza. Essere portato dal “nessun posto” a “qualche posto”. Non importa sia il rock and roll lo strumento di salvezza. Conta il muoversi. Questo passaggio è l’immagine non perfezionabile che fa da collante tra il magma trascendente che troviamo tanto nei canti devoti degli afro-americani quanto in quelli a mezza voce dei crooner bianchi.

Il colore della voce

In Springsteen è quasi diabolica la capacità di trasmettere autenticità e lealtà della propria direzione spirituale col canto. Affronta la cantabilità delle sue partiture con lo stesso naturale manierismo tipico del mondo afro-americano. Non si parla di estensione, purezza, altezza, intensità o tonalità della voce quanto di quella particolare patina della timbrica che è il colore. La tavolozza springsteeniana ha a disposizione una così marcata presenza di armonici (i suoni “altri” che si generano in concomitanza con la nota principale emessa da chi canta) da rendere il canto di una ricchezza e versatilità inaudita. Nella scia del mito dei cantanti neri, ondeggianti tra invocazione, confessione, lamento, romanticismo e sciamanesimo. E sempre a loro agio.

Tanto per citare un esempio. Nel parlare di Devils & Dust il mensile Rolling Stone ha scritto che suona come “James Earl Jones che legge Raymond Carver”. E ora che da qualche anno mister Springsteen ha scoperto la gettata del suo falsetto (ultimamente anche leggermente vibrato), l’accostamento diventa ancora più divertente da cogliere.

Gesù. Poi James Brown

L’arte scenica Springsteen l’ha costruita (anche) sulla tradizione soul americana attingendo da James Brown in prima fila. Lui e la sua regola aurea: a casa non tornerete la stessa persona che eravate quando siete arrivati qua da me. Springsteen ha codificato il rituale che costituì il modello del Godfather of Soul dal vivo e cioè svelare la propria anima attraverso una scrittura scenica che si declina ampiamente anche con il corpo, entrare in un fiume di sudore (simbolo tanto di fatica quanto di nuovo battesimo), dedicarsi a brevi sermoni in cui si mira a rendere carne e sangue l’aspirazione a una vita dignitosa e giusta.

Inoltre, i performer che fanno propria la tradizione del soul americano secolarizzano la figura del predicatore impersonificandolo nella rappresentazione di una gioiosa e commossa redenzione laica di massa. Springsteen si tuffa corpo e spirito dentro questo artificio narrativo senza che il suo stile rimanga solo cornice del racconto scenico. La chiamata alla comunione finale passa attraverso mani tese al cielo circondate da mantra come “raise your hands” o “take me to the river” la cui ripetizione trasforma il momento in uno svelamento incandescente, atto di fratellanza e sorellanza liberatorio e di completa emancipazione dai “lacci che legano” o dai bassifondi che avvelenano perché ora come sempre “non è un peccato mortale essere contenti di essere vivi”.

James Brown

Negli anni luminosi della sua gioventù Springsteen concludeva Thunder Road pattinando con le ginocchia sul palco e terminando la strisciata a braccia spalancate in un gesto di assoluta liberazione a cui se ne aggiungeva un altro ancor più dirompente: il bacio che Big Man Clemons gli stampava sulla bocca chinandosi, in assoluto disprezzo dei pregiudizi sociali. La scena rientra perfettamente nella narrazione corporea che lega Springsteen a Brown tanto che un’accademica umanista come Martha Nell Smith definisce quel bacio un autentico “soul kiss”.

Il 17 marzo 2005 Bruce Springsteen si trova a introdurre gli U2 alla Rock and Roll Hall of Fame. Non va giù per il sottile. Esclama: «Prima di James Brown ci fu Gesù. E non c’è ironia». Non c’è neanche blasfemia, quanto una sottile retorica dal significato trascinante. Proseguiamo sulla via dei nostri avi iniziata col Figlio di Dio che si fece carne. La pelle è unica. (continua)

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