di Emanuele Martignoni.
Si fa buio in sala; e si apre un’America di spazi sconfinati nella corsa dei cavalli bradi. Si fa buio in sala, e tu lì ci sei arrivato, stasera, portandoti addosso il peso di una giornata piena, tante parole, tante persone, tante cose, la testa rimbomba e le ossa sono stanche. Si fa buio in sala e la musica t’avvolge subito e gli occhi si riempiono delle strade polverose dell’West selvaggio. Si fa buio in sala, e tu cadi dentro un respiro.
La prima regia di Springsteen non è un film, né un documentario: è una magnifica operazione di storytelling, una di quelle cose che ti sparano dritto al cuore.
Springsteen con l’album Western Stars, uscito lo scorso giugno, era tornato a parlare dei personaggi che “stanno ai margini” per scelta o per destino; quella manciata di canzoni dalle armonie insolite ed avvolgenti, dalle sonorità ammiccanti al western cinematografico, erano comparse a dirci che nella poetica springsteeniana esistevano ancora i tratti di un’umanità in cerca di riscatto o di un indefinibile senso del vivere. E questa intimità di ricerca veniva suggellata dalla descrizione scenica di luoghi (facilmente richiamabili alla mente) in grado di portare ciascun personaggio a quella dimensione di distacco necessaria perché ognuno potesse fare i conti con se stesso senza precipitare nell’abisso della solitudine, possibile sì, ma evitata dall’attivarsi di quegli strumenti interiori che permettono l’accendersi di nuove motivazioni. Si rimaneva come in sospeso, tra la speranza e la caduta nel vuoto.
La voce quasi sempre sussurrata di Bruce, nel film, scioglie la sospensione e spiega: quei personaggi delle canzoni si rivelano tratti di sé, sono i vissuti, i fantasmi, le paure, i pensieri di Springsteen stesso che ce li racconta, e si racconta, con brevi ed incisive pennellate narrative tra un’esecuzione e l’altra dei brani che ora non solo ascoltiamo, ma anche vediamo, nello splendido setting country del fienile rimesso a nuovo che si erge dentro un apparente nulla pieno in realtà di allusioni simboliche e di immagini che rimandano sempre a qualcosa di concreto e vitale. La costellazione dei sentimenti contrastanti incarnati da ciascuno di quei personaggi, altro non è che il tessuto di un’anima inquieta, quella di Bruce, che da cinquant’anni cerca di rivelarsi attraverso la musica e le parole che amiamo, dalla spavalderia della gioventù alla saggezza della maturità, saggezza che è volutamente ancora più un obiettivo che un traguardo raggiunto, passando attraverso il dolore e la ricerca, l’ardore e la disperazione, le fughe e l’amore.
L’amore. Springsteen è quasi spudorato (e indubbiamente coraggioso) a dichiarare il valore e la necessità del suo affetto più caro, la sua Patti, che gli è accanto in controcanto in tutte le esecuzioni dei brani presentati e che, evidentemente, è accanto ad ognuno di quei personaggi che sono l’anima di Bruce.