La promessa di Milano, storia di un concerto.
di Nicola Cargnoni.
Ci ho provato ad esser breve. Ma in questi casi non si può. Troppo difficile esser brevi parlando dell’Assoluto. I miei concerti di Springsteen sono sempre accomunati a coincidenze più o meno incredibili. Milano 2003 ad esempio coincide con la data del mio diploma delle scuole superiori. La storia del concerto di Milano di giovedì scorso risale al novembre/dicembre scorso, quando sono usciti in vendita i biglietti (in largo anticipo sull’uscita del disco). Dicembre è anche il mese in cui i docenti preparano il calendario degli esami.
In quel periodo stavo preparando l’esame di Storia medievale che avrei voluto fare nel primo appello di gennaio. Rimando; nel frattempo do altri 3 esami. Decido di farlo a maggio, ma a maggio in realtà preparo e do Storia moderna. Decido che Storia medievale lo devo dare assolutamente a giugno: il destino vuole che la data dell’appello sia il 6 giugno. Poteva essere il 4, il 5 o il 7. Invece no, era il 6. Che il docente e Bruce si siano messi d’accordo? 6 giugno, il giorno stesso che sarei partito per Milano. E stavolta non avevo scusanti per rimandarlo un’altra volta. “E come faccio a preparare un esame mentre ho la testa a Bruce?”
Bè, che ci crediate o no, non ho mai preparato un esame in modo così sereno e rilassato, stimolato dall’idea del week-end che ci sarebbe stato dopo. Il week-end inizia alle 6 di mattina del 6 giugno quando parto da Brindisi per andare a Bari a dare l’esame. Passo là il pomeriggio, la sera raggiungo il mio compagno di viaggio a Barletta e da lì affrontiamo il viaggio in bus per Milano, dove arriviamo alle 7 del giovedì mattina, ovviamente senza dormire (questa sarà la costante fino al dopo Firenze). L’estenuante attesa è mitigata da un clima clemente, dall’incontro con tanti tanti amici, dalle risate e dalla buona compagnia. L’idea di avere il braccialetto per il PIT attenua l’incazzatura per un’organizzazione che ogni anno lascia un po’ a desiderare.
Entriamo nel PIT alle 15 per scoprire che oltre a noi (col braccialetto) lasciano entrare molta più gente del dovuto.
La musica di C’era una volta il west annuncia l’entrata della E-Street band sul palco di un San Siro gremito in ogni ordine di posto. Sono le 20.40 e Bruce sale le scalette del palco, accolto da un boato strepitoso. Il suo “Ciao Milano” è l’inizio di una epopea che gli spettatori ricorderanno per sempre. L’inizio “normale” con We take care of our own mi lascia “un po’ così”, nel senso che ormai a questo punto del tour Bruce ci aveva abituati a partenze più esplosive. Ma un inizio soft non può che lasciar spazio a un qualcosa di trascendentale che verrà poi.
In realtà le canzoni nuove dal vivo suonano in una maniera incredibile, e non è un caso che Bruce ne porti almeno 6 o 7 fisse in scaletta (rispetto al “Working” tour dove ne portava 2 o 3). Che ci crediate o no, il pit di Milano era una cosa assurda e dopo Badlands e Death to my hometown ero praticamente stremato e senza voce. Quest’ultimo brano l’aspettavo dal vivo, con quella frase “Quindi ascolta un po’ ragazzo, sii pronto per quando arriveranno, perché ritorneranno, è sicuro come il sorgere del sole, quindi trovati una canzone da cantare e cantala sino alla fine. Cantala forte e cantala bene”, urlata, cantata, finalmente.
La vera botta è arrivata con My city of ruins: fin dall’inizio, con quel “ciao Milano, ciao Italia, come va? Questa è una canzone di saluti e arrivederci, delle cose che ci lasciano e le cose che rimangono per sempre”, e quando parla italiano giuro che non ce la faccio a non sorridere con gli occhi lucidi. Il “c’mon rise up” è sempre potente, maestoso, con TUTTO il pubblico a far sgranare gli occhi di quelli che sono sul palco. La presentazione della band mi ha fatto realizzare ciò che tutti sapevano, ma che in realtà ancora non avevo elaborato. Clarence non c’è più. E l’assenza di Clarence ora pesa, è un sasso incastrato tra cuore e stomaco. “Manca qualcuno. Manca qualcuno?” e partono gli applausi, le grida, fino a che la sua frase, ancora una volta in italiano perfetto, ci dice “Posso sentirli nelle vostre voci”. E io piango, sinceramente, piango perché da tre anni non ero sotto quel palco, da tempo aspettavo una benedizione come quella di giovedì. Piango, perché l’ultima volta a San Siro ero riuscito a far venire anche mio fratello, e ancora tremo davanti a quella frase, all’idea che la nostra gioia sia potuta arrivare da qualche parte nel cielo.
My city of ruins, come tante altre canzoni, è la consacrazione degli innesti nella E-Street band: la sezione di fiati rende ancora più epiche le canzoni, gli stacchi e gli assoli. Jake Clemons sembrava una scelta di “affettuoso nepotismo”, ma il nipote di Clarence merita di stare dov’è, perché a Milano (e anche a Firenze) non ha sbagliato una sola nota delle decine di assoli che ha dovuto affrontare, alcuni anche difficili e di canzoni “rare”.
Ne consegue che la versione “rock, soul, black, gospel” di Spirit in the night e di E-Street shuffle ci riporta nel 1973, quando queste canzoni sono state scritte. È uno spettacolo vedere l’intero stadio muoversi sulle note di pezzi di 40 anni fa. Ebbene sì, perché io ho un vizio durante i concerti di Bruce, nonostante mi trovi a pochi metri dal palco, spesso mi incanto a guardarmi attorno, perché un intero stadio in piedi che muove braccia e gambe è un qualcosa di incredibile soprattutto visto dal basso.
Jack of all trades è uno dei momenti di punta, la classica canzone da “pelle di gallina”. Ormai da qualche anno a questa parte i concerti di Bruce sono vere e proprie feste rock, e per i “lenti” c’è poco spazio. Ancora una volta l’introduzione in italiano “In America i tempi sono stati molto duri, la gente ha perso il lavoro, le case, e c’è pochissimo lavoro. So che anche qui è stato durissimo. E i recenti terremoti hanno contribuito a questa durezza. Questa è una canzone per tutti quelli che stanno lottando”. Ed il senso è tutto qua, perché io ho imparato a lottare anche e soprattutto dalle sue canzoni. Parte la voce, unico sottofondo il giro di pianoforte e il ritmo scandito da colpi leggeri di batteria.
Le luci del palco sono spente, e tutto si illumina con accendini, flash fissi, luci o qualsiasi cosa la gente riesca ad accendere in quel momento. Mi volto, dando le spalle al palco come se la musica venisse da dietro di me e mi incanto a guardare San Siro. Questa immagine credo mi accompagnerà fino alla fine dei miei giorni, perché nulla sarà mai così bello come gli spalti di quello stadio gremiti di gente, di lucine, mentre dietro di me si aggiunge la tromba a rendere tutto ancora così meraviglioso. Vi giuro che mentre le dita corrono sulla tastiera sto riascoltando la registrazione di quella sera, e mi fa male la gola dal groppo che ho dentro.
“You take the old and make it new”, con quella frase capisco che Bruce sta davvero facendo questo, prendere tutto il “prima” e renderlo “ora e domani, e per sempre”; e da quel momento il concerto è un crescendo strepitoso, dalla potente Candy’s room, all’urlo liberatorio di Darkness on the edge of town, dalla terribile Johnny 99 (che in questa versione pare una festa, quasi a voler esorcizzarne il testo), al trittico Out in the street, No surrender, Working on the highway. Tra l’altro, cosa abbastanza inusuale, la band sbaglia due volte l’attacco di No surrender. Alla prima Bruce dice “the estreet band fucked up beat time!”, alla seconda ride e dice “WE fucked two times!” e da lì in poi non sbagliano più nulla. Due paroline su No surrender, la canzone del “abbiamo imparato più da una canzone di 3 minuti che da tutto quel che ci hanno insegnato a scuola”, ha coinvolto ogni anima presente a San Siro e la terza strofa, quella che dice “Le luci della strada stanotte si fanno più tenui, le pareti della mia stanza si restringono. Ma è bello vedere il tuo sorriso e sentire di nuovo la tua voce; voglio dormire sotto cieli pieni di pace, in compagnia del mio amore, con una terra sconfinata e libera nei nostri cuori e questi sogni romantici nelle nostre menti”, gli strumenti fermi e solo la chitarra suonata “stoppata” da Bruce.
Io e il mio amico Germano ci guardiamo, io sono al mio 24esimo concerto, lui al 22esimo, questo per rendere l’idea che non siamo mai stati schizzinosi, né pretenziosi, ma in quel momento gli dico “gran bel concerto, potente, Bruce è in forma, ma fino ad ora nulla di che”. Ed è effettivamente così per un “veterano”, nel senso che non erano stati fatti ancora pezzi “pregiati”. Germano è d’accordo ma aggiunge “sì, però dai ora deve sganciare la bomba”.
La festa continua, nel bootleg che sto ascoltando mi rendo conto di come la componente pubblico (e tra un po’ ci arriviamo) sia un cardine nei concerti “italiani” di Bruce. Shackled and drawn, Waitin’ on a sunny day e The promised land scorrono, tra le nuove sonorità della prima (splendida) e i “blow away” urlati di The promised land. Guardo il mio compagno d’avventura e gli dico “sì però il tempo passa, se vuole sganciare la bomba, dev’essere come minimo un’atomica”.
A questo punto succede una cosa, strana, che non era mai successa dall’inizio del concerto. Dopo The promised land si spegne il palco, le luci, tutto. Bruce va verso il pianoforte, Roy Bittan si alza, Bruce prende il suo posto. Questo non succedeva da… quanto? 3 o 4 anni? Bruce Springsteen è al pianoforte, da solo. Gli altri della band sono fermi. E lui, al pianoforte, è pericoloso, molto. Troppo. Io guardo Germano e cerco di esorcizzare, gli butto là scherzosamente “dai, ora fa For you” (che non mi avrebbe fatto certo schifo). Bruce si siede, fa UNA SOLA nota, per darsi il “là” e inizia a parlare; lui parla, ma io e il mio amico ci guardiamo perché quella nota ci è bastata. Capiamo tutto e ce lo diciamo… “The Promise”. La bomba atomica è stata sganciata.
Quindici anni, ventiquattro concerti. La inseguivo da sempre. Prima volta in Italia da quando è stata scritta (correva l’anno 1977). Lui, al pianoforte, come nelle migliori versioni di questa canzone. È la canzone che OGNI fan spera di sentire almeno una volta dal vivo, ma lui si concede pochissimo, quasi fosse geloso di questo gioiello della sua discografia.
Mi fermo qua, non voglio descrivere quel che ho provato perché è ciò che mi ha frenato dal raccontare questo concerto, fino a oggi. Ma questa è la canzone degli springsteeniani, questa canzone è lui. Seguono The river, The Rising e Radio nowhere, ma vi giuro che io non sono mica riuscito a “godermele”. Nonostante lui giocherelli con l’armonica tra The promise e The river, quasi a voler farci metabolizzare quanto successo. L’attacco di armonica di The river rimane uno degli incipit più belli, vibranti ed emozionanti della storia del rock.
Mi sono ripreso solo su We are alive, sulla prima strofa che Bruce canta suonando solo la chitarra. Lui è ispiratissimo, questo pezzo è incredibile, e sulla seconda strofa entrano le luci e la band. E’ una festa, un delirio, Questo alternarsi di canzoni di quarant’anni fa con canzoni scritte quest’anno ci fa impazzire, perché sappiamo che più ci divertiamo noi e più lui gode a farci divertire; Land of hope and dreams finalmente la sento anche in questa nuova versione, io la canto pensando a una persona sola, com’è giusto che sia… “Afferra il tuo biglietto e la tua valigia. Il tuono sta rombando giù sulle rotaie; non sai dove stai andando, ma sai che non tornerai indietro. Bene, mia cara, se sei stanca; distendi la tua testa sul mio petto, prenderemo ciò che potremo portare e ci lasceremo alle spalle il resto…”.
Penso alla gente presente; a mia madre, che si lascia trascinare volentieri, e mia zia (quella che mi ha portato al mio primo concerto), agli amici sulle tribune. Penso agli amici che sono presenti per la prima volta. Ho le lacrime, perché so che per loro questa esperienza sarà una cesura nella propria vita, un punto di svolta, un cambiamento. Dopo di lui, nulla sarà più come prima. Ti senti felice di essere al mondo, nonostante gli impegni, i debiti, le grane, gli scazzi, la gente che si impegna a volerti male. Ora sono su Facebook, vedo le stronzate che la gente condivide e mi vien da dire a tutti “ma che cazzo ci fate qua, prendetevi un biglietto e andatevelo a vedere”.
Finisce il “main set”, la band è schierata sul palco, uno accanto all’altro. Applausi grida urla pianti risate, il coro “oooohohohoh” di Badlands a scandire il tutto. Nemmeno i 5 minuti di pausa dietro al palco e ognuno torna al proprio posto. Come succedeva fino a tre anni fa, i bis sono un tutt’uno con la prima parte.
Prima di attaccare Rocky Ground ci parla. Finalmente. Dice quello che aspettavamo dal 1985. In inglese, ma ha la stessa valenza. Ve lo traduco “Milano.. Questo è un… avrei voluto dirlo in italiano, ma questo è un posto davvero speciale. [urla del pubblico] La prima volta qua è stata nel 1985. [urla del pubblico] Ed è stato davvero magnifico, grazie al pubblico, e voi siete sempre il PRIMO (in italiano) [urla del pubblico] sempre i migliori, sempre i migliori, Italia, Milano, ‘grazzi’ [urla del pubblico] GRAZIE GRAZIE”.
Guardo al cielo; gli altri anni l’aveva chiamata, ci aveva dato gli indizi, e sui forum, sui siti si scatenavano le discussioni tra il ridicolo e il faceto “ma secondo voi siamo il miglior pubblico di Bruce?”. Ecco, a Milano il 7 giugno 2012, ce lo ha detto, e quella Rocky ground che parla di un pastore che si rialza e raduna il suo gregge è la perfetta allegoria di quel che sta succedendo a San Siro.
Finisce la canzone, lui urla tre volte in italiano “SIETE PRONTI?”, e noi urliamo “sììì” sempre più forte. Parte Born in the Usa, la canzone più incompresa e travisata di Bruce, ma noi che siamo lì sappiamo ormai che quella è una denuncia forte, cattiva, cruda e atroce nei confronti degli Stati Uniti del post Vietnam; e sentirla dal vivo dentro la “scala del calcio” è una cosa che vorrei potesse fare anche mio figlio un giorno, pur nella consapevolezza che non accadrà mai. Born to run è strepitosa, con le luci dello stadio tutte accese, Cadillac ranch che non sentivo dal 1999 (escludendo le versioni del Devils Tour e del Seeger Tour), dove Bruce canta “Hey, little girlie in the blue jeans so tight, driving alone through the MILANO night“;Hungry heart, Bobby Jean (“ti sto chiamando un’ultima volta, non per farti cambiare idea, ma per dirti buona fortuna, addio…”, la strepitosa Dancing in the dark (una delle canzoni più “potenti” dal vivo, alcuni fans sono “stufi” di trovarla sempre in scaletta, io vorrei la facesse almeno 5 volte a concerto) fino ad arrivare a Tenth avenue the freeze-out.
Eccoci qua, la canzone che racconta la genesi della E-Street band. Sulla terza strofa “when the change was made uptown and THE BIG MAN JOINED THE BAND”. Gli strumenti si fermano, Bruce si avvicina ancora una volta a farsi toccare e abbracciare dal pubblico delle prime file, alza occhi e braccia al cielo, sul maxischermo scorrono le immagini di Clarence Clemons. Il nipote Jake prega guardando il cielo, la band è ferma, tutti guardano le immagini dell’omone nero, l’amico di sempre di Bruce, quel Bruce che è un animale da palco ma non riesce a trattenere una lacrima lì, sotto il cielo di San Siro, ognuno di noi ha uno o più motivi per guardare quel cielo e spendere una lacrima. La canzone riprende, siamo tutti sconvolti, stanchi per quel che è stato il concerto, ma nessuno smette di ballare e cantare. Mi giro e San Siro è una bolgia schifosamente infernale, è un catino ribollente di anime festanti e mani alte verso il cielo. Finisce la musica e tutti quanti sappiamo che lo show è finito. Il tour è iniziato il 9 marzo, fino alla sera di Milano sono state fatte 31 date e in NESSUNA, sottolineo MAI NESSUNA erano state suonate altre canzoni dopo Tenth avenue the freeze-out.
La band è in fila, saluta, è il commiato di un concerto strepitoso, luci accese, pubblico in delirio, dal pit parte il coro “oooohohoho” di Badlands. E succede l’imponderabile. La leggendaria band torna ai propri strumenti. Parte Glory days, giorni di gloria, io scoppio a piangere, salto, abbraccio Germano, e lo urlo, lo urlo con tutto me stesso “Cazzo, in questo posto ci regala sempre un pezzo della sua anima, lui ci ama tanto quanto noi amiamo lui”. Va avanti a oltranza, conGlory days si diverte lui, ci divertiamo noi, siamo distrutti, svuotati di ogni energia, privi di voce ma ancora urliamo. L’apoteosi finale è l’attacco di Twist and shout, perché si sta spingendo ogni oltre umano limite di decenza fisica, io ballo e canto ma in cuor mio spero che finisca presto perché sono distrutto, demolito, finito.
Sono le 00.23 e sono passate 3 ore e 43 minuti; tra lacrime e sudore non ho più liquidi in corpo, Bruce e la “legendary” E-Street band sono schierati sul palco, stavolta è finito sul serio uno dei concerti più epici a cui abbia mai partecipato, complice anche la location: San Siro è un luogo unico, spettacolare.
Usciamo dallo stadio, camminiamo con gli svarioni, a passi lentissimi; se appena provo ad accelerare l’andatura, sono fritto. Ripenso al docente che mi mette la firma sul libretto, ripenso al viaggio in bus fino a Milano, a momenti che sembrano lontani anni luce. Ripenso agli amici incontrati lungo l’arco della giornata, ripenso ai tecnici delle luci che un’ora prima del concerto fanno il loro personale show arrampicandosi sulle scalette del palco. E ripenso alla serata, a lui che entra sulle note di Morricone, il boato di San Siro, lui che sorride quasi intimidito da quel successo che spesso vorrebbe non avere, ripenso a ogni momento, agli assoli di sassofono di Jake, a Bruce seduto al pianoforte, alla ragazza delle prime file che ha un cartello “can I dance with Jake” e su Dancing in the dark Bruce la fa salire sul palco per ballare con il nipote di Clarence. Ripenso e intanto leggo l’sms di un’amica presente per la prima volta “e questo lo chiamano concerto? Ma lui respira ogni tanto?”.
Mi sento felice, felice della mia vita, ripenso all’inizio del concerto, mi sentivo esattamente come quei giorni dell’ottobre 2008, quando mio fratello se n’andò e avevo una voglia forte di farla finita sperando che potesse servire a “fare cambio”. Forse proprio per questo dopo le prime canzoni ero totalmente sfinito di voce ed energie, perché avevo cercato di ballare e cantare allontanando quei pensieri. Mi sentivo in colpa di essere lì, di esser felice, e allora dovevo esorcizzare quel momento. Come al solito Bruce arriva nei momenti più difficili, e quella frase “Manca qualcuno, ma posso sentirli nelle vostre voci” mi ha fatto spalancare gli occhi sulla vita, la missione nostra è quella di amarci, amare noi stessi, prendere un concerto rock come una dose di vita, come uno stimolo ad apprezzare le nostre vite, anche nelle sfumature più odiose e cupe.
La sua voce, le sue canzoni, il suo credere in quello che fa mi da la spinta ogni giorno, anche in quelle notti in cui sono da solo nel buio della mia casa di Brindisi, la casa dove viveva Michele e nella quale ora ci sono io, dove ogni sera quando vado a letto spengo le luci e apro gli occhi e spero di vedere il suo fantasma sul letto, a dirmi che va tutto bene. Il suo fantasma c’era a San Siro, insieme a quello di tutte le anime di We are alive. E uscendo da San Siro ho realizzato la mia definitiva voglia di continuare a vivere, ho ripensato allaBadlands urlata a squarciagola e a quella frase che fa di Bruce il mio messia, la mia bibbia, la mia religione in cui credere: “for the ones who had a notion, a notion deep inside, that ain’t no sin to be glad you’re alive”.
Sì. Non è peccato esser felici di esser vivi. Non può e non deve esserlo.