di Dario Greco.
Questo lavoro è un ritorno alle mie registrazioni da solista con le canzoni ispirate a dei personaggi e con arrangiamenti orchestrali cinematici, è come uno scrigno ricco di gioielli. (Bruce Springsteen)
Su “Western Stars” ho evitato di esprimere un giudizio a caldo, perché io il caldo non lo sopporto, e faccio errori che si potrebbero facilmente evitare. Ammetto che sto crescendo, nel bene e nel male. Come ha detto il Nostro: Growin’ Up. Mi sono avvicinato a “Western Stars” con molto scetticismo e qualche pregiudizio, lo ammetto. Un po’ perché non è da Springsteen tenere un disco a decantare per tutto questo tempo, un po’ perché non avevo capito fino in fondo le sue ultime uscite (“High Hopes”, “Springsteen on Broadway”, “American Beauty” e “Chapter & Verse”). Poi però è successo qualcosa in me, e così il disco l’ho apprezzato e spero anche compreso in un contesto analitico, di maturità. E’ un disco che richiede tempo, perché salvo qualche traccia, non colpisce nell’immediato, o perlomeno non aveva colpito me, al primo ascolto.
Ho letto su ilsussidiario.net che in versione “naked” questo lavoro poteva essere migliore. Perdonatemi, ma non ho tutta questa sensibilità musicale e nemmeno così tanta fantasia da immaginarlo diverso da come è stato pubblicato, c’è da dire che sono anche un sostenitore del fatto che “Nebraska”, come album poteva funzionare anche in versione full band (escludendo forse il sax di Clemons e certi arpeggi peculiari nello stile pianistico di Bittan). Quindi diciamo pure che sono la tipica voce fuori dal coro, all’interno della comunità springsteeniana.
Quest’estate ho riascoltato “Darkness on the Edge of Town”, c’ho pescato qualcosa di nuovo, di differente. E’ stato come rivedere un vecchio amico dei tempi del liceo, (alla Glory Days, per intenderci!) uno di quelli veri, vivi, che riescono ancora a darti qualcosa, a emozionarti, anche se hanno perso qualche capello di troppo, come me del resto. Ho poi salutato con giubilo ed entusiasmo la pubblicazione ufficiale del concerto al Capitol Theatre di Passaic del 1978, ma successivamente sono tornato un’altra volta su “Western Stars“, complice anche il bel film “Blinded by the Light”.
Della pellicola di Gurinder Chadha ho molto apprezzato sia lo sforzo, sia l’impegno della regista, nel raccontare una vicenda per lei certamente non affine. La cineasta britannica si è calata in un contesto per lei forse alieno (il film è totalmente privo del background rock, a mio avviso necessario per affrontare un’icona musicale come quella di Springsteen).
Tornando a “Western Stars” ho trovato questo disco un lavoro serio, maturo, con almeno 5-6 brani di spessore e al contempo accattivante. L’album sembra sia ispirato alle atmosfere di Jimmy Webb e Glen Campbell, due nomi che francamente non mi è capitato di incrociare nel mio viaggio sulle strade del rock statunitense, forse perché appunto, non sono autori e interpreti di questo vasto panorama sonoro. Ma qui in effetti di rock classico, c’è ben poco, escludendo la voce matura e sicura di Bruce Springsteen. Un disco pieno zeppo di cowboy alla deriva e bar per cuori solitari, autostrade che non portano a nulla e uno stuntman che sbarca il lunario in qualche B Movie con la clavicola rotta ed una placca di metallo nell’anca, (un po’ Tarantiniana?) città vuote e isolamento umano, voglia di comunità e spazi desertici. Stereotipi? Forse sì, ma c’è dell’altro.
In “Western Stars” c’è soprattutto una certa maestria che si sente subito forte, una coesione tra musicisti e arrangiatori di altissimo livello, piuttosto inedita nella produzione springsteeniana. C’è Jon Brion, compositore e polistrumentista legato al cinema (chiodo fisso in “Western Stars”) e in particolare alle pellicole di Paul Thomas Anderson e di Charlie Kaufman.
Il mio brano preferito è attualmente “Chasin’ Wild Horses”, settima traccia del disco. Per me la migliore cartolina possibile dello Springsteen anni ’10. Meritano una citazione a mio avviso anche “Somewhere North of Nashville”, “Hitch Hikin’”, “Moonlight Motel”, “Tucson Train” e la title-track “Western Stars”.
Marco Denti, in una recensione tutt’altro che morbida scrive: “Western Stars è frequentato da gente che non torna a casa, che è molto distante da se stessa e che, in definitiva, si è arresa. Un’umanità che avrebbe richiesto uno sfondo più accurato e un ritratto meno romantico; un disco di una malinconia indicibile perché è fin troppo evidente che inquadra con un’istantanea uno Springsteen che ha ancora qualcosa da dire, non sa bene come farlo, ma lo deve fare. E lo dovrà fare.”
Il mio vecchio diceva sempre che un cavallo si doma all’unico scopo di cavalcarlo. Quindi se hai un cavallo da domare tanto vale sellarlo, montarci su e partire. Non esistono cavalli cattivi.
Alla fine resta forse l’amaro in bocca, non per il lavoro in sé, ma per il fatto che ci vorrà ancora tempo per un nuovo disco rock di Springsteen. Ripeto, apprezzo e non poco la versione cantautorale, che da “Nebraska” a “Tunnel of Love”, e più avanti da “The Ghost of Tom Joad”, fino a “Devils and Dust”, si fa largo, nello storytelling di questo superbo Autore e musicista rock. Resta il fatto che, come afferma lui stesso nell’autobiografia al capitolo 64, intitolato proprio “Bringing It All Back Home” come il disco di Bob Dylan, dopo aver assistito a un live di Van Morrison, Joni Mitchell e dello stesso Dylan, arriva a questa conclusione: “Anch’io so farlo. Anch’io so regalare questa felicità, questi sorrisi. Tornato a casa, chiamai la E Street Band…
Ecco allora, Bruce, chiamala ‘sta Band! Torna in strada, ma soprattutto torna a incidere il tuo buon vecchio rock, quello di “Darkness”, “The River”, “Born in the USA”, “Lucky Town” e “The Rising”. Dove, tra i solchi, potrai comunque inserire le tue migliori composizioni in stile “Western Stars”, come hai sempre fatto, del resto. Già in The Wild, troviamo brani più intimisti come “Wild Billy’s Circus Story”, “Meeting Across the River” in “Born to Run” e così via, senza continuare una lista che potrebbe diventare infinita. La E Street Band, se stimolata, è ancora capace di creare la giusta atmosfera, il feeling necessario per un disco rock, ma al contempo intimo e struggente. Evitando ciò che Mauro Zambellini definisce “una palpabile sensazione di imborghesimento pop”. Il problema però è nelle orecchie di chi ascolta, con la mente offuscata dal sound epico di The River, Darkness o Born to Run, senza ammettere a se stessi, che tutto cambia e che non ci si può tuffare più di una volta nelle stesse acque. Perché mai Springsteen dovrebbe (e potrebbe) farlo?
Buon lavoro, Bruce, a presto, qui nelle retrovie della civiltà qualcuno invoca e rivuole il Capo!
Da qualche parte nella notte vuota i rintocchi di una campana risuonarono e si spensero lontano dove campane non ce n’erano. Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le loro figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro il freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé. (Cormac McCarthy, “All the pretty horses”)
Album consigliati se vi è piaciuto Western Stars: “Prairie Wind” ( Neil Young 2005), “Highway Companion” (Tom Petty 2006), “All the Roadrunning” (Mark Knopfler & Emmylou Harris 2006) e “Together Through Life” (Bob Dylan 2009).