di Riccardo Marcante
C’era una volta il Bruce Springsteen che sapeva trasformare una scaletta assolutamente standard come quella di Milano 1985 in uno dei concerti più memorabili di sempre, riusciva a far felici diecimila voci sedendosi al piano e rubando un minuto al van in attesa dietro il Palamalaguti dopo tre ore di show, poteva stupire uno stadio intero confessando fradicio di sentirsi a casa e poi commuoverlo con un sorriso stupito quando si accorgeva di non essere il solo a cantare di una città ridotta in rovine.
Se invece spegnevi la luce e indossavi le cuffie, ti faceva entrare in un mondo cinematografico, popolato di persone che avrebbero guidato tutta la notte solo per dimostrare i propri sentimenti, o che sapevano quando accostare al ciglio della statale perché non tutto ha un prezzo sempre coscienti che, comunque, sarebbero arrivati a vincere tutto per poi gettare tutto al vento.
Io stanotte ho guidato tutta la notte, su una E45 che trasmette tutt’altre sensazioni rispetto alla Highway 9, e non per fare un regalo ma perché, molto più banalmente, stamattina dovevo andare al lavoro. Tornavo da Roma, dove ho visto un altro Bruce Springsteen.
Sicuramente in forma fisica al limite dell’illegalità (felice intuizione letta non so su quale articolo nei giorni scorsi), impeccabile (quasi impeccabile) dal punto di vista tecnico, ma a mio modo di vedere distante anni luce dal Bruce di cui parlavo prima. Se prima la sorpresa era sempre dietro l’angolo, in un gesto, uno sguardo, un assolo, una variazione vocale, ora a me sembra sia tutto così ostentatamente improvvisato da essere rigorosamente tutto previsto.
La cosa che personalmente trovo più irritante è la scelta dei pezzi (so che è una critica scontata e banale). Non capisco (o meglio, lo capisco anche troppo bene) come sia possibile che ci si ostini a propinare “The Rising” e “Lonesome Day” dall’inizio del millennio e ci siano dischi assolutamente sottovalutati (il secondo LP di The River, D&D, The Ghost of Tom Joad o lo stesso Nebraska), per non parlare di un cofanetto che contiene tre dischi (il quarto non lo considero neanche) di pezzi che solo la pignola mania di perfezione di Springsteen (quello vero!) ha escluso dalla discografia ufficiale per troppo tempo.
Eppure lo stadio salta, tutto, dal pit fino all’ultima fila della curva più distante, e quindi ha ragione lui. Perché alla fine dei conti, quelli che la pensano come me sono una ristretta minoranza e non ce lo impone mica il dottore di insistere.
Ma io insisto. Voglio continuare a pensare che ogni tanto possa ancora scattare la scintilla, e un compitino scritto bene si trasformi in un capolavoro indimenticabile. È successo l’anno scorso a Milano con un’immensa “Racing In The Street”, poteva accadere ieri grazie alla carica intensa di “American Skin”, ma ahimè era troppo tardi anche a causa di scelte particolarmente infelici fra le mille richieste piovute sul palco.
Mi ostino a credere che prima o poi tornerà a fare musica vera, con una formazione ridotta, in spazi più intimi che però permettano la stessa libertà di espressione già sperimentata durante il D&D tour, in un vero Neverending Tour che assomigli di più alla continua sfida dello zio Bob, piuttosto che al jukebox degli Stones.
Per concludere, parafrasando quello che disse uno che ne sapeva, in una sera in cui avevo bisogno di sentirmi ancora bene e di ascoltare musica come se fosse la prima volta, speravo di vedere ancora il futuro del rock’n’roll, ma ho sempre più paura di aver visto solo il passato.
Ci riprovo a Torino e Udine. E spero, come sempre, di essere io a non aver ancora capito niente.
19.07.09 Stadio Olimpico, Roma
Badlands / Out in the Street / Outlaw Pete / No Surrender / She’s the One / Working on a Dream / Seeds / Johnny 99 / Atlantic City / Raise Your Hand / Hungry Heart / Pink Cadillac / I’m on Fire / Surprise Surprise / Prove It All Night / Waitin’ on a Sunny Day / The Promised Land / American Skin (41 Shots) / Lonesome Day / The Rising / Born to Run / My City of Ruins / Thunder Road / You Can’t Sit Down / American Land / Bobby Jean / Dancing in the Dark / Twist and Shout
C’era una volta…mi associo a quanto scritto da Riccardo e leggendolo vado a ritroso con la memoria. Serata che iniziò nel migliore dei modi con l’intro di Morricone ma che secondo me fu un susseguirsi di emozioni in crescendo fino a Raise your hands. Poi con Hungry Hearts fu almeno per il sottoscritto , un’altra cosa…un bel concerto ma non quello ‘speciale’ che ogni volta sembrava suonato per te. Quelle richieste raccolte..? Avrebbe potuto prender ben altro ma così non fu, certo ci furono My City of ruins, un’intensa American Skin e la chicca di You can’t sit down ma non bastarono a togliermi quel tarlo che mi fondava in testa. Poteva esser qualcos’altro ma fu solo una serata normale….quella notte me ne tornai con il bus navetta a Napoli e prima di prender all’alba il bus per Bari mi sentii solo come mai mi ero sentito .Ricordi di un incontentabile….(per una sera)
Armando