di Andrea Sartorati.
Eccoci di ritorno dal nostro esordio europeo del tour in quel di Francoforte, con le solite considerazioni pseudo-musicali, psuedo-culturali, pseudo-sociologiche. insomma, le solite cazzate dei nostri appunti di viaggio.
ETA’. come si cambia, cantava la Mannoia. un tempo eravamo eccitati per un qualsiasi concerto già da una decina di giorni prima dell’evento e eravamo tanto superbi da credere che chiunque respirasse nell’aria quell’atmosfera un po’ magica e un po’ frizzante che anticipa le giornate epocali. Siamo invece partiti alle 14 per un concerto che si teneva la sera stessa. A soli novecento chilometri di distanza. Avevamo leggiucchiato distrattamente qualche scaletta e letto qualche giudizio non proprio esaltante. Non siamo arrivati al punto da rimpiangere di aver preso un giorno di ferie, ma quasi. Per fortuna la messa laica ha poi invece riattivato i soliti meccanismi di felicità e di rimpianto per non aver allungato il viaggio sino a Colonia e poi Berlino e poi e poi e poi…CULONIA. Lo diciamo ogni volta, però poi inevitabilmente ci ricaschiamo: mai più con Ryanair. Un po’ perché tirano su davvero i peggiori passeggeri dell’universo viaggiante, un po’ perché, a conti fatti tra autobus e altre menate a pagamento (tipo respirare, prima o poi ci arriveranno), a volte basta aggiungere venti euro per volare assieme ai civili. a dire il vero in quest’occasione la colpa è un po’ nostra e sì che siamo fra quelli che pianificano un viaggio con mesi di anticipo, valutando tutte le offerte e le combinazioni possibili e studiando già a novembre gli orari dell’autobus per scendere alla fermata più vicina all’hotel sei mesi più tardi. Lerrore è stato lo stesso che affrontiamo quando leggiamo i romanzi russi, cioè saltare a piè pari la lettura dei nomi propri, ritenendo sufficiente memorizzare visivamente quella sequenza di consonanti impronunciabili. ecco che “Frankfurt Hann” per noi era esattamente “Frankfurt am Mein”. Sappiamo che quei furbacchioni della compagnia irlandese utilizzano come specchietto per le allodole località vicine e quindi passino Treviso per Venezia o Lubecca per Amburgo, ma, cazzarola, trovarsi a 200 chilometri dalla destinazione annunciata non ci sembra proprio la stessa cosa. Hanh non era nemmeno Germania, era proprio Culonia.
VIAGGIANTI. In partenza da Treviso, visto forse anche l’orario, abbiamo incrociato lo sguardo (e la t-shirt) di un solo altro fan, però assomigliava tanto al tipo del negozio dei fumetti dei Simpsons e abbiamo quindi evitato di approfondire la conoscenza, non volendo ridurci a discutere per ore di bootlegs del 1975. Ben più riconoscibili i tipici imprenditori del nord-est con pataccone d’oro al polso, catenazza sulla camicia sbottonata, vestiti pseudo eleganti indossati con una volgarità imbarazzante, parlata dialettale marcatissima e innata propensione a comportarsi da padroni di casa, tipo saltare con nonchalance tutta la fila. Mancava solo che uno di quei tre buzzurri dicesse “ma un po’ di figa qua, no?”. Che poi, miei cari faccendieri, fate proprio sorridere: volete tanto fare i ricconi e poi non solo non prendete Lufthansa, ma nemmeno spendete i dieci euro dell’imbarco prioritario. Anche nel bus di trasferimento (un giorno qualcuno dovrà spiegare qual è l’oscura discriminante secondo cui a volte si possono raggiungere gli aerei a piedi e altre si è invece obbligati a prendere il pulmino) i clienti vip sono separati dal resto della ciurma col nastro bianco e rosso e la loro porta si apre giustamente prima di quella degli altri. è una scena un po’ da apartheid sudafricano, ma soprattutto inutile: perché tanto nella priority ci sono quasi solo le vecchine che, ora che raggiungono la scaletta del boeing, sono già state calpestate dai barbari in recupero come il gruppone in una corsa ciclistica.
UN VIOLA AL PREZZO DI UN VERDE. L’offerta alberghiera tedesca è impressionante. probabilmente molto attenti al tasso di riempimento delle strutture, si scovano con relativa facilità hotel moderni e di design ad un prezzo decisamente abbordabile. forse un po’ troppo attenti al riempire gli hotel: il nostro, infatti, risultava esaurito nonostante la prenotazione. fortunatamente la stessa catena disponeva di un cinque stelle superior lì vicino, offertoci alle medesime condizioni. pensavamo di dormire in Largo Augusto e ci siamo così ritrovati, senza passare dal via, a Parco della Vittoria. Marmi neri ovunque, ascensore grandissimo, luci fioche ai confini dell’oscurità, musica jazz (quando non sai che genere è, comunque è jazz) in sottofondo, arredamento minimalista, domotica della stanza regolata da touch screen, tv Loewe, dock per iPhone. Ci ha dato l’idea di essere quegli hotel, invero un po’ freddini, in cui si portano le mignotte di alto bordo. Ma è solo un’impressione fantasiosa: non abbiamo amici del PDL che possano confermarcela.
PIT. Stadio bello, non troppo grande, senza fronzoli. Ovviamente molto comodo da raggiungere con i mezzi pubblici, che sono gratuiti per qualsiasi evento si svolga da quelle parti o in fiera. Non una volta sì e dieci no: sempre. Eccola una delle differenze fra Germania e Italia: lì certe sinergie sono sistematiche, non demandate alla buona e sporadica iniziativa del singolo. Non solo per la possibilità di arrivare alle 18.30 con tutta tranquillità, ma siano comunque benedetti i biglietti front of stage a pagamento. Palco posizionato sul lato corto, che poi secondo noi è sempre la soluzione più adatta per un concerto rock all’aperto (hai voglia di dire che sei in prima fila se sei a 60 metri dal palco e devi tenere costantemente la testa ruotata di cento gradi per vedere quello che canta al microfono). Il prato è diviso in settori: mostri il biglietto e superi una prima transenna, più o meno all’altezza del mixer. Avanzi e ne trovi un’altra: vuoi vedere che quei furbacchioni dei crucchi hanno fatto il pit del pit? Invece no: rimostri il tagliando e ti si aprono le porte della zona sotto-palco. Invero tranquillissima, anche perché l’età media del fan springsteeniano da queste parti è simile a quella del governo italiano. Hanno l’orecchino e qualche tatuaggio sbiadito, ma appena avvertono lo stimolo della sete abbandonano la posizione per recarsi allo stand della birra e si può tranquillamente avanzare ancora.
IL CONCERTO. L’inizio del concerto è ai limiti del tragico. “Badlands” nella stessa versione degli ultimi 30 anni, un’imbarazzante “We take care of our own” e una “Wrecking ball” assolutamente priva di mordente. Eravamo pronti a confermare le voci moderatamente critiche di chi era stato in Spagna e invece da lì in poi è stato un divertente e interminabile party. Da tempo andiamo dicendo (in realtà proprio a nessuno: da lustri non partecipiamo, volontariamente e con somma soddisfazione, al dibattito springsteeniano) che a livello di contenuti artistici la vera palla al piede di Bruce si chiama E Street Band. Possono piacere o meno, essere delle grandi mattonate sui cabasisi o progetti senza capo né coda, ma tutti gli esperimenti “altro” si sono rivelati sulla carta almeno più interessanti. Il concerto con la gioiosa macchina da guerra musicale si ripete invece uguale a sé stesso da tanto (troppo?) tempo, assumendo i contorni di un greatest hits itinerante e di un juke-box continuo. Ma, se baraccone deve essere, allora vogliamo pure i fuochi d’artificio, le luci laser e le coriste fighe cui dare una bella manata sul culo tra un brano e l’altro. Un po’ come i maestri cazzari dei Rolling Stones, cui non passa nemmeno lontanamente l’idea di veicolare un qualsivoglia messaggio sociale. Però, alla fine diciamo anche la verità. Ci siamo divertiti? Sì, moltissimo. ma proprio tanto. Ci ha stufato la baracconata dei cartelli (ove tra l’altro il fan più frustrato può dar sfoggio o della sua inutile saccenza con richieste al limite della ricerca bibliografica o del suo amore malato con modalità progettate in tandem con archimede pitagorico)? Sì, però ci ha regalato l’accoppiata “Cadillac ranch” / “Sherry darling” sulla quale anche tipi compassati come noi non hanno non potuto ballare. La scena con i bambini in “Waiting on a sunny day” è patetica? Sì, però i due saliti sul palco della Commerzbank Arena hanno sfruttato bene i loro due minuti di celebrità (di meglio avrebbero solo potuto urlare che quella canzone è una cagata pazzesca) e hanno aumentato il tasso di adrenalina della serata. Le noti dolenti? Poche. La pagliacciata delle parole di circostanza in tedesco, per esempio. Probabilmente nemmeno comprese visto che la reazione è stata nulla. A quel punto meglio il Trap e il suo inarrivabile strunz.
LA BANDA. Non solo noi, ma anche i nostri eroi iniziano ad avvertire il passare degli anni. diciamo che la mobilità da un po’ non è il loro forte e assomigliano un po’ ai Giggs, ai Del Piero e ai Totti che deliziano sempre i propri tifosi – che mai si sognerebbero di criticarli – ma giocano praticamente da fermi, regalando magie solo dalla loro mattonella. Bruce invece è un po’ come Paul Scholes: ha gli stessi anni degli altri, ma corre come un tempo. Magari con qualche furbizia: come l’innocuo fallo tattico del rosso centrocampista serve a prender fiato, qui una scenetta dilatata all’infinito (in una degna di nota è l’imitazione, immaginiamo non voluta perché comprensibile solo dal pubblico tricolore, di Umberto Bossi nel tipico sorriso post paresi da incontro con Luisa Corna) o la presentazione al rallentatore della band assolvono la medesima funzione. Piccoli trucchetti da fuoriclasse. Non abbiamo mai capito una fava di questioni tecniche, ma il sassofonista-nipote ci è piaciuto. Il nostro orecchio non ha sentito stecche (non possiamo dire lo stesso per l’ultimo Clarence) e abbiamo trovato molto umano – e sinceramente autentico – l’atteggiamento di paternalistico supporto del Boss a chiamare l’applauso per ogni intervento del nuovo entrato in famiglia. La sezione fiati risulta invece a nostro avviso un po’ sprecata: ha delle parti assegnate nel copione, recitate con maestria, ma la sua presenza assomiglia a uno di quegli add-on nei videogiochi di calcio. Schiacci il tasto e appare la palla infuocata che brucia le mani del portiere. Bello, la usi un paio di volte, ma poi ti accorgi che è un elemento estraneo alla filosofia di tutto il resto. Nessun arrangiamento viene stravolto per dare una nuova veste ai brani. Lo stesso accade con il coro pseudo-gospel. Peccato, l’impressione è quello che si continui sulla falsariga del casino a tutti i costi, probabilmente nemmeno precisissimo, delle ultime tournee. Che poi, con tutta probabilità, è ciò che chiede la maggioranza schiacciante del pubblico: ritrovarsi in territori già noti, per fingere che le merendine di un tempo erano davvero più buone e non semplicemente l’idea che ne conserviamo solo perché eravamo tutti più giovani.
LA CITTA’. A Francoforte ci sono pochi o zero monumenti e musei. L’unica quindi è passeggiare a zonzo e respirare un po’ l’atmosfera della città, attraversata da un maestoso fiume dalle inquietanti acque marroni. Inutile nasconderselo: il benessere in Germania c’è e non viene nemmeno tanto nascosto. All’inizio facevamo il gioco di scorgere delle Fiat nel traffico. Dopo due ore di zero a zero siamo passati a “trova una qualsiasi utilitaria nel traffico” e anche qui il punteggio non ha raggiunto cifre zemaniane. La vita non è cara in assoluto (leggi: i commercianti non ti vogliono fregare in qualsiasi occasione), ma poi nelle piccole cose ti vien da pensare che forse il loro reddito giustifica un caffè espresso a due euro e mezzo. Tutti poi a guardare i prezzi della benzina per poter dire che qui il diesel è 1,4 e noi invece paghiamo ancora le accise per finanziare le caravelle di Cristoforo Colombo. Probabilmente però in Germania ci deve essere una tassa sull’acqua minerale: in un decoroso ristorante abbiamo pranzato con 8 euro, ma abbiamo pagato la nostra minerale da 75cl la bellezza di 5 euro e 70. Abbiamo già scritto in altri resoconti di nostri viaggi teutonici delle biciclette enormi, atte a trasportare questo popolo che per altezza media e sana e robusta costituzione ha incredibilmente perso delle guerre mondiali. Certo, a volte inquietano per questa aitanza un po’ da gioventù hitleriana, ma in fondo sono sempre ospitali, mostruosamente organizzati e incredibilmente civili. Se solo la Bundesliga fosse bella come la Premier League avremmo seri dubbi sul dove trasferirci quando avremo il coraggio di dire addio al nostro paese.
GLOBALIZZAZIONE. Le grandi città, in quanto a negozi e ristorazione, tendono ormai ad assomigliarsi tutte: da un lato è tranquillizzante, dall’altro questa standardizzazione e omologazione è il prezzo da pagare al pianeta globale. Anche qui poche ma immense edicole, che ogni volta rinnovano in noi l’antico desiderio di lavorarci per poter passare tutto il tempo che vogliamo con ogni rivista immaginabile, ci hanno allietato le ultime ore nella città: intere pareti dedicate a settori specifici, dove, con un po’ di pazienza, si possono scovare “macchine reflex per persone mancine” o “suonare il basso senza corde per far impazzir le donne sorde”.
AMICI. Alla fine non è né la musica né il rinnovare le proprie statistiche malate di fan la molla principale che ci spinge a partire per l’ennesimo concerto (e rispondere poi alla solita domanda di colleghi e familiari, “ma sempre dello stesso?”, proprio loro che ordinano la capricciosa da una vita). sono gli amici che incontri prima o dopo l’esibizione. Che non fanno parte della tua quotidianità, ma invece ne fanno parte come e più di certe facce che ti ritrovi davanti ogni dieci minuti. Con cui scherzare per la pancetta, la barba che si imbianca, i capelli che non ci sono più. Ma che in un abbraccio veloce ti fanno capire che in fondo sono inguaribili come te e un po’ di bene autentico te ne vogliono. E’ soprattutto per loro che già in aereo pensi a come buttar giù questa serie di cialtronate.