di Andrea Boido.
Questa è lunga, ma lunga veramente, portate pazienza. È che avevo proprio bisogno di scriverla per una questione di equilibrio personale, per cui sono stato del tutto incurante di un eventuale lettore. L’avrei pure divisa in parti, ma temo sarebbe sembrata ancora più lunga.
Sono state scritte mille recensioni su Western Stars e a occhio sono tutte molte positive. Non lo so, non ne ho letta nemmeno una. Non volevo farmi condizionare.
A dire il vero una l’ho letta. Quella di Patterson Hood dei Drive-By Truckers. I musicisti sono i critici più spietati e Hood è una persona che ha sempre qualcosa di interessante da dire, per cui non ho resistito. Verso la metà, parlando del pezzo che dà il titolo al disco, dice che è una canzone “capace di farti venire un groppo in gola come Walk Like a Man o The River”.
Wow. Parole grosse.
È il momento in cui ho pensato “eccoci qua, il fan ha preso il posto del critico/musicista”. Che poi questa tendenza springsteeniana a commuoversi, se non a versare lacrime copiosamente, mi è sempre stata un po’ aliena. Ho pianto una volta sola a un concerto credo, durante Bobby Jean a San Siro 2008. Non so nemmeno dirvi perché, è successo e basta. Ma ascoltando un disco? Leggere il testo di Sinaloa Cowboys mi portò alle lacrime, sì. Prima di quello c’è solo la prima volta, a 17 anni, in cui ho ascoltato Sittin’ on the Dock of the Bay. Il pezzo in cui Redding canta “I left my home in Georgia…” e la musica sale e a lui si incrina leggermente la voce, avete presente? Si aprirono le dighe e iniziai a singhiozzare. Per la bellezza insostenibile di quell’incrocio perfetto di suoni, non per tristezza. Non piango per tristezza, piango per eccesso di bellezza, di solito.
Durante il primo ascolto di Western Stars la mia prima lacrima ha scavalcato gli argini sulla coda della quarta canzone. Che, come chiaramente pronosticato da Patterson Hood, è proprio la title track. Il fatto è che da lì in poi non ho mai smesso fino alla fine. E questa sì è una prima volta assoluta. Eccesso di bellezza anche stavolta? Non lo so, forse, ma solo in parte. Il fatto è che se hai un certo vissuto e cominci ad avere anche una certa età e determinate idee sull’esistenza, questo disco ti scava dentro, solo che lo fa anche troppo bene e le cose che ti dice devi essere davvero pronto ad ascoltarle. E nessuno è mai veramente pronto ad ascoltarle.
Questa non sarà proprio una recensione. Non so cosa sarà, forse una meditazione, un delirio, una seduta terapeutica o una combinazione delle tre. Però la comincio come una recensione:
Western Stars è il crepuscolo di Springsteen e dei suoi personaggi.
È la fine del viaggio. È il pezzo di strada che nessuno vuole veramente visitare, quello che nessun vuol credere che esista, quello a cui arrivano in pochi e che nessuno ha realmente voglia di sentirsi raccontare. Perché non promette né gloria né speranza ed è popolato solo da fantasmi costretti a ripetere costantemente le stesse azioni senza nemmeno sapere più il perché.
Springsteen la strada l’ha battuta palmo a palmo. Il viaggio è partito da davanti casa di Mary in Thunder Road, è passato da illusioni, delusioni, violenza, speranza e nel tempo abbiamo visto tanti di quei personaggi scendere dalla macchina e fermarsi da qualche parte, con alterne fortune. Ma per qualcuno il viaggio è continuato. Noi non li abbiamo più seguiti, ma una parte di Springsteen l’ha evidentemente fatto. Una parte incapace di fermarsi. Piccola, nascosta, soffocata, ma mai morta, mai del tutto silenziosa. E sempre in movimento, sempre pronta a scavare in cerca di una via di fuga. Springsteen quei personaggi incapaci di fermarsi non li ha mai persi di vista, fin quando è arrivato il momento di tornare a essere brutalmente onesti per dirci com’è fatto l’ultimo miglio della Thunder Road.
Lo spettacolo è desolante, ma il tono non è paternalistico, né troppo coinvolto. Questa volta non è una cosa del tipo “state attenti, guardate queste anime perse, non fate i loro stessi errori”. Tutt’altro. Queste anime perse non hanno mai avuto mezza possibilità, erano destinate a finire qui. A non avere punti fermi e a continuare a muoversi fino alla fine. Non hanno fatto errori, è proprio quello che sono, nel profondo, ad averle portate su questo pezzo di strada. Perché questo disco è la cosa più vicina a Nebraska che abbia mai fatto.
No, non musicalmente, è evidente. Non sto parlando nemmeno di qualità, anche perché nulla è o sarà mai come Nebraska. Intendo emotivamente e tematicamente. È una raccolta di storie di esistenze finite male. Solo che in Nebraska c’erano le vite di persone a cui di colpo qualcosa era andato storto. Poteva essere la chiusura di una fabbrica, la recisione dei legami familiari, la frammentazione della struttura sociale nel suo complesso, l’elezione di Reagan, quello che vi pare. Insomma, a un certo punto nella vita di queste persone era capitato qualcosa di brutto e da lì era iniziata la picchiata.
Ai personaggi di Western Stars è capitata una sola cosa veramente problematica: vivere. Anzi, ce ne sarebbe un’altra: il carattere sbagliato per questo mondo. Niente di trascendentale, non certo la psicopatia di Starkweather. Solo un po’ di inquietudine di fondo che trova una via per esprimersi nell’incapacità di mettere radici. Quello che ha fatto di questi personaggi gli eroi di un milione di canzoni blues, rock e country, quello che li ha fatti diventare leggende di cui ancora oggi si cantano, letteralmente, le gesta, ecco, proprio quello si è trasformato nella loro condanna.
So che qualcuno ha parlato di eccesso di violini. Oh, non che ce ne siano pochi, intendiamoci. Però mi sa che sfugge un po’ il punto. Dire che qui ci sono troppi violini è come dire che in Lawrence d’Arabia c’è troppa sabbia. Gli archi sono lì in massa per un motivo. Toglieteli e queste diventano solo storie disperate di persone disperate. L’orchestrazione serve ad alzarle da terra. A portarle da qualche parte tra il cielo e l’ignoto. Queste persone non sono più veramente qui. Perché l’ultimo miglio della Thunder Road evidentemente si stacca dal terreno e conduce a bussare alle porte del Paradiso. O di qualunque altra cosa pensate ci sia alla fine di tutto, compreso il nulla.
Questa è una delle spiegazioni che mi sono dato, quella a cui voglio credere. Un’altra, e ammetto sia la più probabile, è che l’orchestrazione dipinga spazi infiniti per farci apparire questi personaggi ancora più sperduti, impotenti, persi in un girovagare fine a se stesso e privi della speranza di una qualunque meta all’orizzonte. In ogni caso, e per quello che può contare, sento anch’io un milione di archi, ma non ne conto uno di troppo.
Voglio credere che questo sia un disco “concept” come si diceva una volta, con una sequenza precisa di passaggi che portano da A a B. Anche se non lo fosse, però, non posso credere che Hitch Hikin’ apra il disco per caso. Il protagonista, nell’attitudine e anche nel linguaggio, sembra la versione giovane di Springsteen. In fondo, proprio come Springsteen, o meglio la sua musica, ce lo siamo portati in giro in macchina ovunque. Qui abbiamo un personaggio fiero della sua totale indipendenza, libero di muoversi leggero come una piuma portata dal vento, senza catene, senza legami, persino arrogante (il modo in cui parla del padre di famiglia potrebbe essere parafrasato in “i figli sono un dono, certo come no, tu continua pure a raccontarti ‘sta favola, io non farei mai a cambio”).
Quanti personaggi, veri o immaginari, come questo abbiamo incontrato nella storia del rock’n’roll? Ragazzi che pensano esattamente quello che pensa questo autostoppista: sarò sempre libero e senza catene, sarò sempre in cima al mondo, nulla mi potrà mai toccare.
Il seguito prova che aveva torto, come cantava De André.
E il seguito inizia subito. In The Wayfarer la strada sembra una dipendenza, e chi è dipendente non è libero per definizione. Il non formare legami che durino non è già più una scelta, ma una semplice e pura incapacità. Quante storie d’amore ci sono in questo disco che vivono solo come ricordi, cose che potevano essere e non sono state, storie che sembrano profondissime e di cui non sappiamo nulla. Non un nome, non un motivo per cui sono finite, nulla di concreto, tanto che viene il fondato sospetto prima di tutto che siano state importanti solo per chi ne canta. E che forse lo siano solo ora nella sua testa e che sia stato lui stesso a buttarle per aria all’epoca, perché la strada e la solitudine chiamavano più forte. Queste donne quasi angelicate, perse e mai più ritrovate, non sono mai descritte, eppure ti sembra di vederle, intente a offrire ai protagonisti sempre un’altra occasione, solo per pentirsene amaramente ogni singola volta. Fino al punto in cui hanno realizzato che a seguire un uomo come questo vai in mille luoghi diversi, ma non arrivi mai da nessuna parte. In fondo è quello che una di queste donne senza volto e senza nome continua a ripetere in Stones, pezzo che apre una sequenza di quattro pezzi finali che sembra una picchiata verso l’abisso: il peso che senti sono le bugie che mi hai raccontato. Come a dire, smettila di stare ad aspettare treni, a rimuginare, a rimpiangere, a fingere di cercare di riconquistare un giardino dell’Eden in cui non ti ha mai interessato vivere, perché il problema alla fine sei stato sempre e solo tu. Il problema sarai sempre tu.
Stones è per molti versi il punto di svolta finale del disco e suona proprio come una pietra tombale che toglie a questi personaggi persino la loro ultima occupazione da fantasmi, quella di inseguire, in un circolo infinito, un passato ideale e il sogno di una ragazza che poteva essere quella che cambiava il loro destino. Ma non c’è mai stato nessun domani migliore all’orizzonte, ognuno di questi personaggi l’avrebbe comunque barattato sempre per un altro pezzo di strada, per un altro po’ di “drive fast, fall hard”, per una canzone addirittura. O, semplicemente, l’avrebbe stroncato sul nascere per colpa di un carattere impossibile da imbrigliare, come un cavallo selvaggio.
Perché chiunque abiti Western Stars era destinato dall’inizio a finire qui e ad aggirarsi per sempre senza meta come un fantasma in un bar, raccontando storie di un passato che non ha mai avuto mezza possibilità di essere e che è servito solo a creare un’altra storia da raccontare, in un circolo infinito che lo porterà a svanire inesorabilmente nella notte.
Alla fine di tutto, dopo la consapevolezza che il “miracolo” se ne è andato per sempre, e che aveva le stesse possibilità di realizzarsi di un miracolo, appunto, dopo aver capito che si può essere in balia di qualcosa di più forte che è dentro e che non c’è modo di curare, ma che è capace di far fuggire ogni raggio di luce nello spazio di un secondo, dopo tutto questo si arriva a schiantarsi per terra, nel parcheggio del Moonlight Motel. Qui l’orchestrazione sparisce, perché non esiste nemmeno più una porta del paradiso o un vuoto comunque cosmico cui tendere. Non c’è più neanche uno spazio infinito in cui muoversi senza meta. Solo il freddo e il buio di un luogo che sembra uscito da un incubo di Lynch.
C’è una teoria su BTX secondo cui il protagonista in Moonlight Motel si suiciderebbe alla fine del pezzo e devo ammettere che non sembra affatto campata per aria. È basata soprattutto sul fatto che nell’ultimo verso i primi due brindisi sono raccontati in prima persona, il terzo dall’ottica di un osservatore esterno. Come a dire che chi parlava non c’è più, e il terzo brindisi è il sangue che cade sull’asfalto del parcheggio. Non so, è un’ipotesi suggestiva, mi piacerebbe farla del tutto mia, ma non so se mi convince abbastanza.
La cosa più spaventosa però è che in realtà fa davvero poca differenza. Con un cuore che batte o meno, quello che ascoltiamo parlare è un fantasma che non riesce, né riuscirà mai, a lasciare quel motel. Tutto quello che gli resta… no, tutto quello che lui è, ormai, è solo il ricordo di qualcosa di buono e che probabilmente era già solo un’illusione tanto per cominciare, come lo sono la maggior parte delle avventure figlie di un tradimento. Non c’è via d’uscita, non c’è un domani, e alla fine forse non c’è stato nemmeno veramente uno ieri. Resta solo la figura traslucida di un ricordo che andrà a spegnersi lentamente, per sempre imprigionato nel parcheggio di un albergo chiuso che non sembra nemmeno quello del tutto ancorato nella nostra dimensione.
Moonlight Motel è forse il finale più devastante che un disco di Springsteen abbia mai avuto, a parte forse il glaciale nichilismo di Reason to Believe. Ma siamo lì, solo su un piano metafisico diverso.
Dopo tutto questo, io mi sono dato una spiegazione del perché Springsteen non abbia voluto fare un vero e proprio giro promozionale di interviste per questo disco. Potrebbe essere che non creda più in un disco tanto spietato, ma sente comunque il dovere di non far finta che non sia mai accaduto. Che il disco sia il frutto di un momento di buio che ora è passato.
Mi piacerebbe fosse così.
Ma potrebbe essere che senta questo disco troppo vero e quindi terrificante, una di quelle realtà che uno sa di non poter guardare troppo a lungo dritto in faccia se vuole continuare a vivere in modo almeno decente. In entrambi casi, capisco bene che uno preferisca risparmiarsi la prospettiva di passare giorni a rispondere a domande sull’infausto destino di un gruppo di personaggi che sembrano, e probabilmente sono, quello che Springsteen crede sarebbe diventato lui se le cose fossero andate in maniera solo leggermente diversa.
Perché a me sembra evidente che l’attore di Western Stars (la canzone) sia una versione di Springsteen che non ha incontrato Appel, che non ha potuto cantare per Hammond, che non ha scritto Born to Run nell’ultimo momento utile per salvarsi la carriera. Così come tutti gli altri personaggi sono quello che forse lui sente sarebbe diventato se non avesse imparato a fare i conti con il suo spirito in fuga, non avesse incontrato Patti, creato una famiglia e, soprattutto, imparato a posare quella chitarra.
Dopo averlo sentito avrei addirittura preferito che, come Nebraska, questo disco fosse uscito così com’è e basta, perché togliere una qualunque canzone dal contesto di tutte le altre per farne un singolo significa operare una violenza non necessaria al pezzo in questione e al disco nel suo complesso. Persino There Goes My Miracle inserita qui, nel posto che occupa, ha di colpo un senso.
Forse, infine, dovremmo anche fermarci un secondo per realizzare una cosa: che il disco piaccia o meno, rappresenta una mossa artistica di raro coraggio. Non musicalmente. A un livello ben più alto. Qui abbiamo quello che tutti i cliché giornalistici da 40 anni e più a questa parte descrivono come il cantore del viaggio, del fuggire per trovare qualcosa di migliore, della strada come speranza di riscatto. Che poi è il cliché stesso del rock, di cui Springsteen dovrebbe rappresentare l’anima più pura. Ecco, quell’uomo lì ha appena fatto uscire un disco in cui ti dice una cosa forte e chiara per quasi un’ora: alla fine della strada non c’è niente di niente. Richiede un coraggio e una statura morale che è di pochi.
“Credibilità. Non puoi averne più di così, a meno che tu non sia morto”. Questo disse Bono introducendo Bruce nella Hall of Fame. Mai frase m’è suonata più vera. Con la decisione di pubblicare questo disco, anche se con otto anni di ritardo, Springsteen è tornato a essere qualcosa che temevo di aver perso per sempre, soprattutto dopo Wrecking Ball, e di cui invece ho sempre avuto bisogno: qualcuno che puoi ascoltare quando sei pronto a conoscere la verità. Anche se fa male. Soprattutto se fa male. Ed anche qualcuno capace di creare la mappa con cui può aggirarti lungo ogni fase della vita, sapendo che nel disegnarla non ha tralasciato di segnalarti nessun angolo buio.
E quindi grazie, per l’ennesima volta
Recensione fantastica. Definitiva per me
Bellissima recensione…da custodire nei files dedicati a Springsteen e rileggere quando si vuol tornare su questo disco !
Complimenti , una recensione scritta completamente “fuori dal coro” , brillante ed originale, nella quale mi sono ritrovato. Ho provato pure io a scriverne una sul mio blog ma non è cero di questo livello, sebbene sia stata scritta di getto . Keep on Rockin’ !!!
10 di minuti di applausi…
Grazie.