di Armando Chiechi.
Ebbene sì, non pareva vero ma questo disco che sto ascoltando in queste ore è giunto alla mia porta come una visita inaspettata, come quel vecchio amico che non vedi da tempo e che ti accenna riguardo a una presunta visita e non sai se ti sta parlando sul serio oppure è uno dei suoi soliti scherzi.
E invece è proprio qui… tra le mani una copertina che sa di cieli tersi ed un mustang che innalza la sua possente e lucida presenza verso quegli spazi infiniti. Spazi che hanno cominciato a nutrire la tua testa sin da piccolo, spazi che han fatto da sfondo a produzioni televisive e corse in auto. Spazi che hai tenuto nella memoria crescendo a suon di rock. Il deserto che fu di Gram Parsons e Jim Morrison, di quelle prime istantanee firmate Henry Diltz, delle prime copertine degli Eagles più countryrock fino agli U2 del Joshua Tree. Ed eccolo qui il disco di cui già si è tanto parlato… colpa di questi tempi e della rete, più veloce della luce e di ogni nostro pensiero, di ogni sorpresa o sogno che sia.
I timori erano non pochi eppure bastava comprendere meglio ciò che il nostro amico del New Jersey aveva detto al riguardo. In casa qualcosa di Glenn Campbell già circolava da tempo immemore ma anche di Burt Bacharach. Mi bastava aggiungere qualcosa di Scott Walker e magari riprendere qualche vecchia antologia di Roy Orbison. Gli indizi erano chiari, quindi quando la sezione archi è arrivata come una timida locomotiva su Hich Hickin’ o con i vagoni al cui interno sedeva The Wayfarer non mi sono stupito più di tanto… anzi, mi sarei stupito del contrario. Che bello caspita… lo avrei visto bene anche nelle mani di Brian Wilson.
Quando giunge il treno che viene da Tucson la sorpresa manca ma è sempre bello vedere passare quel vecchio treno. Western Stars invece è il brano che ti fa piangere già dalle prime note, un perfetto b movies dimenticato da Peckimpah o perfetto nelle mani di un Aronowsky o del Friedkin di Killer Joe ma senza il tocco noir. Ma è ancora cinema d’essai con il brano a seguire… storia di cadute fisiche e umane. Cadute… cadute che arrivano anche con due brani, There Goes my Miracles e Sundown, unici nei ma che ad ogni modo non ne abbassano la media e che cosa più curiosa ti ritrovi già a fischiettare il ritornello della prima.
La malinconia regna sovrana ma è il mondo che va a rotoli e si porta via tutto, compreso vecchi attori e cowboys, amanti e vecchi sognatori… tutta gente arrivata all’ovest chissà da quanto… ma poi che importa, quando di quel sogno è rimasto solo un vago ricordo? Ad ogni modo per parlare in modo concreto, posso dire che questo disco suona dannatamente bene, come mai forse era accaduto prima. Dalle chitarre acustiche ai banjo, dalle lap steel alle elettriche in modalità twangy, dai violini alle trombe ed ogni minimo dettaglio incastonato in una perfetta architettura. Che sia questo il Wall of Sound sognato da Bruce? Che sia o meno questo… una cosa è certa, Bruce è tornato in gran forma e anche se il cielo lassù è più buio in quelle notti all’ aperto, ci sarà sempre qualche stella ad indicarci il sentiero verso casa.