La chiave del documentario si trova nei minuti conclusivi, quel concerto di vecchie glorie dell’Upstage Club che affollano il palco e che ospitano i ragazzini della scuola musicale che sta provando a riportare Asbury Park ai fasti di un tempo.
Bruce Springsteen fa un passo indietro, lascia salire sul palco il bambino di non più di dieci anni che suona la chitarra e stacca il cavo dalla sua per darlo a lui. (Poi fa finta di suonare per tutta la canzone, ma fingiamo di non essercene accorti).
In quel gesto ci vedo la volontà di un passaggio di testimone, di un trapasso delle nozioni, di una storia che vuole continuare anche se con narratori diversi, che abbiano però ben chiaro da dove quella storia è partita.
Non è un caso forse, che tale gesto, semplice ma che io vedo enormemente simbolico, lo faccia proprio Bruce, che di Asbury Park è allo stesso tempo il figlio più noto ed il padre putativo, o quantomeno il nume tutelare.
Asbury Park Riot Redemption & Rock and Roll è un film su Bruce? No. Non lo è, anche se non passano penso più di tre minuti consecutivi in tutto il film senza che lui venga inquadrato in una intervista o in un filmato d’epoca, anche se senza il suo intervento non sarebbe mai arrivato a noi.
È un film DI Bruce, che come detto ad Asbury, alla Asbury dei primi anni 70, ha dato notorietà e lustro, proprio mentre cadeva a picco, quella Asbury che qui in Europa, se lui non fosse diventato “BRUCE SPRINGSTEEN” in pochi (nessuno) avrebbero considerato e tanto meno scelto come meta di pellegrinaggi.
Come Elvis non inventò il r’n’r ma fece in modo che tutto il mondo lo conoscesse, Bruce fece lo stesso con Asbury, svelando la gloria e la magia degli anni 50/60, che sono i meravigliosi protagonisti della prima parte del documentario.
La storia di Asbury, che penso comune a molte città americane mai assurte alla gloria dei riflettori, è una storia davvero americana, una storia di iniziativa, condivisione, voglia di mettersi in gioco e di affermare sé stessi; è la storia di una città che fino a quel maledetto 4 luglio 1970 rappresentava un’isola felice, grazie alla musica e all’arte, grazie alla cultura che spingeva le persone una verso l’altra e non una contro l’altra, che abbatteva divisioni che comunque c’erano, fossero solo i binari di una ferrovia.
“Se vuoi risolvere i problemi razziali chiedi ad un musicista” dice un tale nel film e Dio solo sa quanto avremmo bisogno ora di uno sguardo del genere, qui, in America, ovunque.
La musica quindi come strumento di conoscenza e rispetto reciproco, di arricchimento reciproco, strumento creativo e unificatore, che dà a chi la suona e a chi la ama uno sguardo dove non esistono differenze se non in termini, appunto, di scambio.
È un film per i fans di Bruce, che in quanto tali hanno imparato negli anni a conoscere ed amare quel suono, Southside Johnny (l’unico cantante che canta un pezzo di Bruce meglio di Bruce), la commistione tra soul, blues, jazz e rock che proprio in locali come l’Upstage nasceva, nelle interminabili notti a tempo di jam sessions e che poi venne immortalata in quella cartolina dal New Jersey che Springsteen mandò (quasi inascoltato) al mondo al suo esordio, cartolina piena di quei personaggi talmente assurdi da essere reali e che infatti popolavano i locali dove nacque la sua carriera.
È un film anche per chi non ama Bruce, per chi però sa quanto sia importante la musica nel tessuto socio-culturale di una città, per chi dà alla musica l’importanza necessaria a influenzargli la vita, la visione del mondo, a dargli la spinta per provare a raggiungere il proprio sogno.
Non è un caso quindi, che Born to Run e la sua disperata voglia di autodeterminazione siano ambientati proprio da queste parti.
C’è tanto Bruce certo, ma ancor di più si capisce quanta Asbury, quanto New Jersey ci sia in lui, nelle sue canzoni, nei suoi personaggi.
Due sono le strofe che ho sentito risuonare forte durante il film:
Down here it’s just winners and losers and
Don’t get caught on the wrong side of that line
Dove “that line” era la ferrovia, che separava east e west side, ricchi e poveri e che la scena musicale ricchissima di Asbury riuscì per lungo tempo a nascondere, come del resto successe con Elvis e Beale Street.
Two cars at a light on a Saturday night in the back seat there was a gun
Words were passed in a shotgun blast
Troubled times had come
To my hometown
che sembra raccontare con precisione lo scoppio della rivolta razziale del 1970 (anche se il testo parla del 65), che spense di colpo le luci e la musica, lasciando solo palazzi bruciati, disoccupazione o, come dice nella stessa canzone
Now Main Street’s whitewashed windows and vacant stores
Seems like there ain’t nobody wants to come down here no more
La Asbury di oggi è una città che prova in tutti i modi a ricreare quella magia e questi sforzi vengono simboleggiati dai ragazzini della scuola musicale, ai quali viene passato il testimone sul palco, affinché provino a ricostruire quello che anni prima gli adulti avevano distrutto.
Chissà se nel cavo per la chitarra c’era qualche ingrediente segreto che è arrivato al ragazzino col cappellino al contrario.
Il macchinista si arrampica sulla sua ruota panoramica come un prode
e il mangiatore di fuoco è in una pozza di sudore, vittima dell’ondata di caldo
Dietro il tendone la mano in affitto stringe le gambe sulla lama del mangiatore di spade
Il Circo della città è in onde corte.