di Andrea Volpin.
Nel 1973, Asbury Park, pareva essere al centro di un mondo che ruotava attorno a se stesso, creando un magnetismo tutto suo attirando i più svariati personaggi verso il suo centro. Tutto quello che stava al di fuori di quella piccola città affacciata sull’oceano Atlantico, sembrava essere un mondo lontano e tutto da scoprire.
Bruce Springsteen fu catturato da quel magnetismo qualche anno prima quando, iniziò a frequentare i suoi ambienti musicali, rimanendone colpito profondamente. Lì conobbe alcuni personaggi che già erano stati sedotti dal richiamo della città, come Vini Lopez, Danny Federici e Steve VanZandt. Lì, con loro, iniziò a suonare con gli Steel Mills e poi con la Bruce Springsteen Band che, di lì a poco, si trasformerà nella E-Street Band. Asbury, come fu per Bruce Springsteen, divenne un richiamo per suonatori erranti alla ricerca della loro Itaca; un luogo da cui ci si voleva allontanare per scoprire universi diversi ma dove, alla fine, ci si tornava sempre. Da vincitori o da vinti.
Il 5 gennaio del 1973, esattamente quarantacinque anni fa, usciva il disco che più di tutti celebrò questo universo strano e ricco di storie. Scritto, e realizzato, da chi più di tutti ha vissuto le vie di quell’universo sentendone fortemente l’influsso. Il disco, già dal titolo lo lascia intendere, risponde al nome di: Greetings From Asbury Park, NJ.
Nove racconti di una storia complessa, che richiama la spensieratezza dell’essere giovani alternandola alla forte sensazione di sentirsi prigionieri di un mondo che sembra essere in perenne bilico tra il buio della notte e l’alba del giorno dopo. Un mondo che trattiene, quasi imprigiona, le persone che lo abitano; un mondo che sembra influire, come la luna sulle maree, creando umori e sapori diversi di volta in volta. Ogni fuga, anche se breve va celebrata, quasi osannata, a dimostrazione che tutto l’album è un inno alla ‘fuga’, e che Asbury Park – da lì in poi sarà un leit motiv almeno fino a Darkness – rappresenta la metafora di quella quotidianità della vita, di quella banalità dell’esistenza fine a se stessa da cui bisogna fuggire.
Pensiamo a Blinded By The Light e ci sembrerà di camminare in un labirinto buio, quasi inquietante, pieno di personaggi fermi, quasi bloccati, di fronte al loro destino; e così, fuori da quel buio, a cui il nostro occhio si sta abituando, c’è la luce abbagliante della vita, della redenzione, della libertà. A volte si fugge, anche solo verso un luogo immaginario, come in Spirit In The Night, per assicurarsi un giorno, un’ora o un minuto di libertà a celebrazione di un momento di cui si sa quale sarà l’epilogo. Ma non importa, il momento di Crazy Janey e dei suoi amici è da catturare, da non lasciarsi sfuggire.
Sembra quasi di respirare la nebbia, la foschia nel vedere il soldato di Lost In The Flood che torna a casa dopo chissà cosa. Soldato o semplice combattente sconfitto dalla battaglia finale contro la vita? Ecco il contraltare della fuga, il ritorno. Il ritorno, o il risveglio, dal sogno di poter ballare con gli spiriti in una notte stellata, alla realtà di una notte cupa e solitaria attraverso strade popolate da eroi pronti all’ennesimo tentativo di dare una svolta alla propria vita, per poi ritrovarsi sempre a ruotare attorno a quell’asse che sembra non volerli mollare mai.
Se poi, alcuni trovano lo spazio per dire al mondo che quel costume che indossano non è quello che altri vorrebbero cucirgli addosso e che faranno di tutto per cambiarlo, tanto meglio. Alludendo a esperienze personali e dirette, come nella bellissima – e sentitissima – Growin’ Up ecco che, la celebrazione del ‘momento’ – inteso come istante – trova il suo compimento in due singoli contenuti nell’album: Does This Bus Stop At 82nd Street e It’s Hard To Be A Saint In The City. Qua tutto si mischia, qua tutto si fonde in un insieme complicato e articolato miscelando le emozioni personali dell’artista alle situazioni di vita vissuta tra le strade di Asbury e non solo.
La fuga da quel mondo, il contatto con esperienze nuove, il sogno, effimero, di essere qualcuno anche solo per un semplice appuntamento. Esatto contrario delle figure quasi drammatiche di Mary Queen Of Arkansas e The Angel che sembrano subire il fluido; sembrano subire il magnetismo e sembrano volerselo scrollare di dosso solo nell’istante in cui esso li pervade.
Il disco si completa con un pezzo sentimentale dal titolo For You. Il testo non è semplice, le situazioni sono complesse e articolate. Un pezzo carico di metafore – d’altronde lo è tutto il disco – che raccontano la vita amorosa di una coppia che cerca di ridare un senso ad un amore che sembra tramontato. Non è una canzone tipicamente d’amore questa, ma è più una riflessione su cos’è l’amore ai margini di un mondo che spesso priva e che, molto più raramente, concede.
Greetings From Asbury Park, NJ è un disco che nasconde una bellezza oscura, latente e che difficilmente affiora al primo ascolto. Figlio di uno Springsteen giovane, illuso – e allo stesso tempo disilluso – della vita, ‘prigioniero’ scomodo di un mondo che lo attanaglia e, allo stesso tempo, lo attira. Un disco che racconta, prima dei personaggi e delle loro storie, prima delle persone delle loro difficoltà, una scenografia, o meglio un teatro, che muove quei personaggi quasi a suo piacimento, concedendogli solo alcuni istanti per sentirsi veramente liberi. Un teatro poco illuminato ma con tanti posti a sedere; un teatro comandato da un regista che nessuno può vedere, ma che tutti possono sentire: la vita.
Buon compleanno, Greetings From Asbury Park, NJ. Disco, luogo e patria di un suono che dura da quarantacinque anni!