di Francesco Santoro.
La musica contemporanea ha sempre trovato un potente alleato nelle immagini. Molte hanno acquisito una fama tanto insperata quanto fuggevole, poche altre hanno strappato un posto all’immortalità. Il movimento rock, nei suoi primi vent’anni, ha promosso una mitologia iconografica assurta a modello estetico. Alla metà dei ’70, Springsteen s’imponeva quale archetipo di una sciatteria educata dai caratteri identitari, alcuni latenti, altri conclamati, riassunti per la copertina di Born To Run. Il look del giovane musicista combinava scampoli di passate stagioni e, inconsciamente, ne introduceva una alle porte. Ma, nel nitido contrasto tra il bianco e il nero, davvero tutto è stato svelato? L’interesse, tutt’oggi, ricade sul generale a scapito del particolare. Famosa, famosissima, la fotografia scelta per rappresentare Born To Run, negli anni ha raggiunto un’esposizione mediatica incredibilmente vasta. Bruce Springsteen è ritratto con la sua Fender, co-protagonista dello scatto, che lì nel mezzo esige attenzione. E’ un immagine che offre qualcosa di magico perché si presenta carica di potenza, tanto da collocarsi tra i riferimenti dell’arte visiva correlata alla musica. E’ solo comunicazione, in fondo, ma porta in dote una quota di incontaminata disinvoltura, una dose di esuberante ingenuità che lascia pensare a qualcosa di diverso dalla propaganda commerciale. Chi ha il disco in vinile sa del retro apribile con tanto di Clarence “Big Man” Clemons a sorreggere lo smilzo “Bad Scooter” (eh sì, se dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, dietro un grande rocker … c’è sempre un grande sassofonista) in una posa che inneggia all’amicizia ed esalta i toni della fratellanza. Il bianco e nero scelto per lo scatto traduce al meglio il contenuto del disco, esprimendo il classicismo di una musica che confida nell’eternità. Indosso a Springsteen, passato e presente riconfermano fonti di ispirazione e credo. L’ostentazione della spilla raffigurante Elvis aggrega orfani della controcultura dei ’50; zazzera e barba incolta richiamano l’esteriorità anticonformista in auge nei ’60; chiodo indossato con disinvoltura, canotta logora (e quelle sneaker lacere visibili in una foto di copertina alternativa) sembrano anticipare involontariamente la moda punk. E’ un simbolismo che riesce a catturare l’immaginario di differenti visioni, a richiamare al senso di appartenenza al mondo rock. Un’impresa titanica compiuta con un look cencioso, ma ricercato, celebrato in versi cantati solo due anni prima, efficaci nel persuadere che è davvero difficile essere un santo in città. Tutti i provini per la copertina vengono realizzati in un’unica sessione il 20 giugno 1975. Sono opera del fotografo Eric Meola che trent’anni dopo li ha resi integralmente manifesti in Born to Run The Unseen Photos, coffee table book da cui trae origine l’ulteriore compendio intitolato Born To Run Revisited, pregiatissimo volume che seleziona stampe dal formato (alla stregua del prezzo) colossale. Per volontà di Meola il set fotografico di Born To Run appare netto come un foglio candido su cui provare ad imbastire un racconto. Soggetti e scenario devono essere contaminati dal nero e al tempo stesso curati da un antidoto di bianco. Il fotografo decide di fissare quell’attimo in un “non luogo”, in un difetto dell’immaginazione, in un limbo accessibile solo al sogno. E’ un party a numero chiuso che rende la fotografia insolita, astratta com’è da qualsiasi contesto scenografico, calata in una realtà a se stante. Qui ad attrarre lo sguardo sono i dettagli, compresi quelli della chitarra, oggetto inanimato che più vivo non potrebbe essere. Un pezzo di legno che ha imparato a parlare e che, nel testo di Thunder Road, si ritaglia versi magari pretenziosi ma messaggeri di un finale catartico. Springsteen e la sua “dannata chitarra” (come usava apostrofarla Douglas, suo padre) delineano non tanto la puntuale sinossi quanto la perfetta idealizzazione dell’album. Difficile poterne immaginare il postulato a prima vista, ma copertina e contenuto saldano elementi che sorreggono una tesi unica. Tra proclami e dilemmi si inneggia al rock‘n’roll salvifico e rivoluzionario dei primordi. Indizi, mescolati tra particolari figurativi e dettagli compositivi, si combinano: Presley sorride sulla spilla celebrativa di un club di ammiratori newyorkesi, Roy Orbison è menzionato in prima battuta e Bo Diddley è celebrato ogni qual volta rimbalza la sequenza di “mi” e “la” in She’s the One. Ma tutte queste cose sono note, nonché meglio approfondite su centinaia di testi scritti con la massima accuratezza. A sorprendere è una peculiarità di quella chitarra. Una parte ben visibile ma al riparo dietro corde che sono rifugio e al contempo motivo di evidenti graffi. Quella foto ha quasi certamente decuplicato le vendite della Fender e ha garantito l’immortalità alla prima decente chitarra solid-body della storia. Ha fatto sbavare migliaia di teen-ager e di sicuro è stata preda di numerose imitazioni, eppure non tutti si sono soffermati ad osservare il battipenna. E il riferimento non riguarda il tizio, figura solitaria rintanata in una backstreet, che s’intravede tra una corda e l’altra. Sicuramente l’enigmatica “immagine nell’immagine” invita a favoleggiare. Lo scenario notturno è rischiarato dalla luna piena e dalla luce artificiale del lampione che offre sostegno all’uomo. Lo sconosciuto calza un cappello e pare portare una mano alla visiera per assestarla sulla fronte. Potrebbe volere essere nient’altro che un semplice accomodamento eppure potrebbe celare un segnale rivolto a chi si affaccia alla finestra sullo sfondo. Potrebbe essere il cenno d’intesa lanciato a quell’Eddie che in Meeting Across the River deve procurare un passaggio. O forse, potrebbe essere solo il rituale meditativo di un ragazzo che sfumacchia l’ultima sigaretta prima di saltare in macchina con Wendy e scappare da una città che agli uomini, manco fossero animali da macello, strappa le ossa. O ancora, potrebbe essere qualcuno che porta l’armonica alla bocca per farci vibrare dentro il soffio che intona l’incipit del disco. Ad ogni modo, chiunque rappresenti il personaggio stilizzato, ammesso che rappresenti qualcuno, è inciso o stampato su un materiale insolito per il suo utilizzo. Il battipenna ha l’infelice compito di parare i fendenti, di raccogliere il fine corsa del plettro scagliato sulle corde. Vero è che già nel ’75 ben poco c’era da preservare di una povera chitarra che si offriva al mondo in tutta la sua sfregiata bellezza, ma a sapere che il pezzo nero avvitato sotto le sei corde non è in plastica, tantomeno in bachelite, sorprende. Non un prodotto del petrolio, quindi, e nemmeno una resina. George Orwell asseriva che “ci vuole uno sforzo costante per vedere cosa c’è sotto il proprio naso”. Nulla di più vero. Cuoio. Il battipenna è in cuoio. Quella Fender è agghindata con della pelle nera. Una scelta che conferisce personalità ad una chitarra che, con tutte quelle storie sulle sue parti assemblate, favorisce il riscatto dell’ibridazione sull’ordinarietà di strumenti rimasti inviolati. Ma di ordinario in una chitarra che si rispetti, non vi è mai traccia. C’è sempre una minuzia che la rende unica, una tipicità che la distingue dalle altre, non tanto in quanto a spasmodica ricerca del suono distintivo (qui rientrano variabili diverse quali l’approccio stilistico allo strumento, l’amplificazione, l’effettistica e altro ancora) quanto a tratto estetico. Chi deve il proprio successo a quell’accumulo di legname e metallo, tende sempre ad assegnargli un valore che supera di gran lunga quello che occhi profani leggono come una strana suppellettile. Jimi Hendrix usava adornare personalmente la propria “Strato”, Joe Strummer ha iniziato a mettere qualche adesivo sulla propria “Tele” fino a rivestirla integralmente, Tom Morello – altro musicista che si affida ad un ibrido – espone simboli e scrive messaggi radicali sulla sua chitarra customizzata, senza dimenticare Prince che ne ha fatta produrre una identica all’ideogramma col quale ama identificarsi (Love Symbol). Alla stessa stregua, la chitarra di Springsteen è conformata alla personalità del musicista. Vestita da un battipenna nero, quella Fender è strumento antropomorfo che nasconde ossa, muscoli e cuore, proprio come Bruce sotto una giacca dello stesso materiale e colore. In rete sono disponibili ingrandimenti che svelano, nei dettagli, incisioni e colori che col tempo, probabilmente, sono stati spazzati via dal sudore. Una fine che deve essere toccata anche alla pelle conciata del precedente “pickguard”, quello rosso con un ovale giallo oro al centro. Ma di questo accessorio è difficile ritrovare foto a colori che ne illustrino chiaramente i tratti. Le informazioni circa la provenienza del battipenna con le miniature sono incerte, ma risulta nota la destinazione ultima. Non è dato sapere, infatti, se è stato acquistato o commissionato dal ragazzo del New Jersey. Di sicuro si sa che è finito nelle mani di tale Ed Kosinski, collezionista (di memorabilia rock, in generale, e di Springsteen in particolare), collaboratore per la Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland ed esperto chiamato a verificare l’autenticità degli autografi delle rockstar. Degno di nota è anche un altro particolare, assente dalla copertina di Born To Run, ma allacciato (è proprio il caso di dirlo) al concept promozionale dell’album. Quella delle scarpe è metafora ampiamente utilizzata per celebrare il concetto di chi è “Nato per correre”. Difficile azzardare la congettura che individua in questa campagna pubblicitaria una nuova consuetudine, poi imitata un po’ dappertutto e in serie. Innegabilmente il book fotografico di Meola impone un assioma arrivato fino ai giorni nostri: due Converse lo-top penzolanti significano “Born To Run”, dicono Bruce. Backstreets “la più grande comunità mondiale di fan di Springsteen”, ad esempio, rappresenta nel proprio logo quelle sneaker. Sneaker diverse l’una dall’altra. Una stramba usanza che il ragazzo adottava non solo sul set fotografico ma anche on stage. In più di una foto si può notare la differenza tra quella che sembra la classica All Star modello Chuck Taylor (anche se le tre strisce oblique ricordano il marchio Adidas) e quella che rassomiglia ad una Converse Jack Purcell. Chissà, magari atteggiamenti insoliti come questo, insieme ad altri, possono aver indotto il precipitoso Jay Mernicky – dirigente della CBS all’epoca di Born To Run – a dichiarare che “Springsteen è un vero bluff”, “un drogato” beneficiario di una reclame ipertrofica e immotivata. Ma anche se anomali, quelli erano modi di fare propri di un venticinquenne un po’ guascone, nonché di un musicista esposto all’obiettivo. La storia ha poi emesso la sua sentenza, convalidata da una carriera che di anni è arrivata a contarne 40 e che, proprio con le musiche di Born To Run ha preso il largo. Ma quell’album ha trovato un potente alleato in una pellicola in bianco e nero. Non si potranno mai slegare qualità espressa dalle otto tracce e valore aggiunto di una copertina che ha avuto il pregio di eternare la magia di un momento. Irripetibile. E davvero non importa se non è un capolavoro dell’arte fotografica. Si potrebbe affermare, parafrasando Springsteen stesso, che non è una cover bellissima ma, hey, per i fans va benissimo così.
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