Qualcuno ha detto che “l’uomo ha una vasta gamma di comportamenti e di possibilità che vanno dagli abissi della dissennatezza sino alle vette eccelse di una divina felicità”. Pochi sono gli uomini che hanno potuto esplorare questa varietà emozionale da un estremo all’altro. Pochissimi coloro che hanno avuto la fortuna di poterla raccontare. Uno di questi è Bruce Springsteen, talentuoso e fortunato cantautore americano che per i suoi 67 anni ha pubblicato l’autobiografia Born to Run.
Bruce Springsteen ha recentemente messo su carta la storia di uno dei suoi personaggi più riusciti, uno di quelli che popolano i suoi testi, un tipo che sembra davvero autentico. E di fatto lo è, perché Bruce racconta sé stesso senza la mediazione di uno di quei caratteristi delineati a scopo narrativo per le sue canzoni. Springsteen provvede a traslare il titolo del suo epico album del ’75, Born to Run, per dedicarlo alla sua autobiografia e per concedersi la facoltà di sentenziare sul suo passato e sul periodo che lo ha visto formarsi, crescere e prosperare nell’America che tutti i suoi fans hanno imparato a conoscere attraverso un percorso artistico quarantennale.
Il libro, edito da Mondadori e tradotto da Michele Piumini, ripercorre l’esistenza del cantautore del New Jersey in maniera cronologica e con dettagli personali mai pienamente svelati prima. I capitoli introduttivi scorrono all’insegna di una narrazione capace di mappare l’albero genealogico della famiglia Springsteen con una precisione che denota grande interesse per le proprie radici.
Tra queste la dottrina cattolica è parte essenziale e fa da sfondo alla formazione di chi si affaccia al mondo ma malvolentieri accetta le briglie di dogmi e formalismi liturgici. Un rifiuto stemperato dal tempo fino ad un totale annullamento, anzi, fino ad un cambio di prospettiva in età avanzata, ovvero ai giorni nostri, che lascia il passo ad un ritorno religioso prorompente, in una sorta di panteismo sui generis. Il nucleo domestico, dunque, offre suggestioni indelebili i cui frammenti sono sparpagliati nell’intero songbook springsteeniano.
Il parentado è relativamente grande e i singoli componenti educano secondo ruoli indistinti, esacerbando originarie influenze italo-irlandesi, con una faziosa predominanza della tradizione italiana. Un ambito che risulta saturo di conflitti irrisolti e sentimenti negati; un perimetro entro il quale prospera un insolito (per i tempi) groviglio anarcoide che instilla, nel giovane Springsteen, un imprinting umorale alimentato da prostrazione e sbandamento, accanto ai più noti aspetti di tenacia ed esuberanza. Ed è questo un risvolto che Bruce preferisce rimarcare: la sua ordinarietà da contrapporre, una volta su tutte, alla sua eroica immagine pubblica. Una dichiarazione dalla sincerità disarmante (“una storia che avevo bisogno di raccontare”) palesata presumibilmente per esorcizzare un alter ego ancestrale e autodistruttivo.
Born to Run accoglie pensieri così intimi che a tratti infondono, nel lettore, l’idea di raccogliere una confessione imbarazzante, proprio mentre l’autore usa espedienti per andare e tornare dal precipizio. Ed è questo l’aspetto del privato che più desta attenzione e, dopo un primo momento di sorpresa, stima. Il divario tra la solidità che il cantautore ha sempre rappresentato sotto i riflettori, la facilità di “tenere il palco”, la voce spavalda e dai toni potenti – peraltro accompagnata ad una fisicità solida e implacabile – contrasta con una routine saturata da fragilità, incertezze, psicoterapie e continui viaggi solitari improvvisati per mitigare demoni invincibili. Contrapposizioni mai messe in piena luce prima e che qui hanno il compito di fissare la distanza tra la figura dell’intrattenitore di successo e la fallibilità dell’uomo che affronta il quotidiano. Springsteen, insomma, ridimensiona sé stesso e straccia (proprio come quei volantini dai toni enfatici del Hammersmith Odeon) quelle convinzioni sublimate dai suoi ammiratori sulla scorta di trionfi e riconoscimenti. Sin dalla prima metà del libro emerge, inattesa, l’ammissione di una depressione incipiente: un ponte dai tavolacci sconnessi che pencola sul baratro.
Per quanto attiene il percorso artistico (e commerciale, s’intende) Bruce Springsteen è ovviamente consapevole di aver colto una rara nonché consolidata affermazione nel mainstream rock e ne parla con toni trionfalistici, pur soffermandosi a meditare su quanto ardua sia risultata la scalata alla vetta degli dei (“Non sapevo con sicurezza che cosa volevo, ma quando lo trovavo ne riconoscevo l’odore”). Sono numerosi gli aneddoti che ripercorrono le frustrazioni, i passi falsi e le sconfitte: cadute ammortizzate – tutto sommato – grazie all’ausilio di una dote naturale e di una caparbietà straordinaria (“Il mio talento, il mio ego e i miei desideri erano incontenibili”).
Traspare disincanto misto a romanticismo nella ricostruzione dei primi album; si manifesta con tutta la sua importanza la produzione de The Ghost Of Tom Joad, spartiacque di metà carriera; mentre è ben più agrodolce l’osservazione sul recente Wrecking Ball caricato da aspettative sovrastimate, ben presto affossate dal mancato gradimento di pubblico e critica.
Tra le pagine di Born to Run affiora il pensiero dell’uomo che analizza la genesi di una nuova famiglia, il valore dell’amicizia, l’incongruenza della vita, l’ingiustizia sia personale che sociale, ma che è ben lungi dal rinnegare i piaceri di una vita faraonica pur debitoria di un’estrazione proletaria. Nelle oltre cinquecento pagine che compongono questa storia personale c’è soprattutto l’artista che descrive la sua ispirazione e la sua passione per la musica, l’arte che tutto gli ha concesso in cambio del sacrificio di affetti e relazioni. A tal proposito non mancano motivi per scandagliare un primo naufragio matrimoniale, con la modella e attrice Julianne Phillips, e la successiva autentica ricostruzione della fede in una nuova avventura sentimentale con Patti Scialfa, àncora tra le mura domestiche e primo – nonché unico – elemento femminile in pianta stabile nella E Street Band.
Già, la sua sgangherata cricca con strumenti al seguito! Esemplari risultano le pagine incentrate sulle dinamiche di quel fenomeno musicale che risponde al nome di E Street Band, “il” gruppo di Springsteen che in ambito rock ha calamitato popolarità e guadagni principeschi, pur tra diverse scollature e passate tensioni. Particolare non da poco riguarda il legame con il chitarrista Steve Van Zandt, certamente autentico, ma meno solido di quanto pubblicizzato in più di un’occasione. Toccante la sezione dedicata agli scomparsi Danny Federici (organista) e al partner scenico Clarence Clemons (sassofonista). Ogni elemento della band viene posto in piena luce e, finalmente, si rende formale apprezzamento a Nils Lofgren, chitarrista generoso e dotato di mirabile maestria, da sempre relegato a subalterno d’eccellenza.
E dopo il flashback dai contorni opachi sulla separazione con i sodali della E Street, trova spazio l’emozionata rievocazione di un reboot della band ammantato, dopo dieci anni di lontananza, da una coltre di perplessità presto polverizzata dall’assordante attacco di Prove It All Night. Un feeling ritrovato durante una prova lì dove tutto è possibile, su di un palco, spiraglio tra il mondo reale e il mondo vagheggiato, che propizia anche una The Promised Land “leggera come una piuma e profonda come il mare”. Due pezzi capaci di rinsaldare il legame come se non ci fosse mai stata alcuna scissione, due perle tratte da Darkness on the Edge of Town lo stesso disco inclusivo di brani che, parole del musicista, “se ancora oggi formano il nucleo dei nostri concerti forse è perché rappresentano la quintessenza del rock che volevo fare”.
Come ogni autobiografia che si rispetti, si notano anche deficit di “sceneggiatura” e scarsità di dettagli lì dove gli hard core fans, per contro, avrebbero preferito apprendere rivelazioni.
Ad esempio non c’è una sola parola a carico dello spiacevole episodio del “No Nukes” quando – il 22 settembre 1979 al Madison Square Garden – durante il concerto tenuto per auspicare un futuro senza energia nucleare, Springsteen schernisce la fotografa Lynn Goldsmith, sua ex compagna.
Irrisolta resta anche la motivazione alla base della decisione di dispensare tutta la E Street Band, sul finire degli anni ’80, escluso il tastierista Roy Bittan.
Solo abbozzato, in un passaggio così impersonale che può definirsi cronachistico, un evento che invece avrebbe potuto cambiare le recenti sorti dello Springsteen performer. Viene riportata la notizia, mai trapelata prima, di un’operazione che lo costringe a rimanere muto per più di due mesi. Una piccola grande sciagura per un cantante, archiviata in poche battute quasi ad esorcizzarne la portata (“scoprii che i dischi cervicali del collo schiacciavano i nervi responsabili dei movimenti, dalla spalla in giù. […]L’intervento si svolge così: ti fanno l’anestesia totale, ti aprono la gola, ti spostano le corde vocali di lato, si mettono al lavoro con chiave inglese, cacciavite e titanio, ti staccano un pezzo d’osso dall’anca e ti costruiscono dei dischi nuovi”).
Sovrabbondante, ma basilare per comprendere il corso degli eventi, è, invece, il profilo particolareggiato di Douglas Springsteen. Padre dalla personalità condizionata dai disturbi mentali e dall’abuso di alcol, Douglas sembra impossibilitato ad intrecciare una genuina relazione genitoriale capace di spazzare quella irrisolta condizione di incomunicabilità che lo attanaglia. E’ una figura oscura e ingombrante, la sua, che lascia in eredità al figlio un’ombra fredda e abissale. Ed ecco il fulcro del libro: è tutto in questo dualismo che tanta importanza riveste nella poetica di Bruce. Nella parte terminale dell’intera narrazione è recata una delle note più commosse e illuminanti dell’intero libro: “Quel mattino in cui papà venne a trovarmi a Los Angeles poco prima che diventassi padre a mia volta rimane un momento cardine del nostro rapporto. Era venuto per supplicarmi umilmente, per tracciare un bilancio nuovo a partire dagli elementi oscuri e confusi che componevano le nostre vite. […] Mio padre voleva che scrivessi un finale diverso per la nostra storia. È da allora che ci provo, ma storie come questa non hanno fine. La racconta il tuo sangue, per poi trasfonderla nel sangue di coloro che ami, una sorta di eredità”.
Lo Springsteen autore dell’opera letteraria, meno efficace del suo omologo autore di liriche, non è riuscito a compendiare il proprio vissuto alla stregua di una sua proverbiale canzone. Del resto, come avrebbe potuto? Forse val la pena accreditare la tesi che vuole questo scritto punto fermo di un percorso fin qui particolarmente riuscito; il desiderio di imprimere i ricordi per buttarseli alle spalle e ricominciare, se non a correre, a “camminare nel sole” proprio come recita l’epilogo di Born to Run (il singolo).
Per ammissione dello stesso Springsteen – “Non vi ho detto «tutto» di me” –, Born to Run è un’autobiografia parziale e, alla fine della lettura, restano sospese incognite che riguardano la vita pubblica e privata dell’autore. Com’è essere Bruce Springsteen? Fantastico? Un’inimmaginabile babele? Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro? Cosa altro sarebbe successo senza lo splitting tra il Boss e la E Street Band all’apice del successo? Springsteen stesso cerca di risolvere il dilemma tra le pagine di questo memoir, ma forse è proprio l’unico incapace di esporre ipotesi e congetture.
Ci sono molteplici anime che sono riuscite a strappargli un passaggio su quella Chevrolet Corvette del ’60 dai cerchioni Cragar sfoggiata come un trofeo in copertina. Sono molteplici le personalità racchiuse nello stesso uomo, nello stesso artista obbligato a “decidere chi far scendere dalla macchina” prima di riprendere il viaggio con una stridente sgommata.
Per questo, a tutti coloro che approcceranno al testo, sarà bene ricordare che Bruce Springsteenè uno storyteller e che come tale si è addentrato in questo esercizio introspettivo. Per dirlo alla sua maniera, “c’è qualcosa di strano nel raccontarsi per iscritto. A conti fatti, non è che una storia, una storia che ho composto a partire dagli episodi della mia vita”.