Ogni tanto ci torno. Arrivo davanti al portone, mi fermo e guardo. La casa di mio padre, il cortile, il grande pioppo che divide la siepe. Più che vedere immagino. Immagino i ricordi. Sono le voci che si alzano e che arrivano da quando smisi di essere bambino.
Non smetto di fermarmi neanche quando ci capito per una ragione che non sbuca dal passato. Non c’è più mio padre, non ci sono più io e anche la casa a quest’ora avrà coperto la nostra memoria con la memoria di chissà chi altro. Però continua a chiamarmi.
La vedo solitaria, la vedo colma di anni, la vedo fredda eppure ogni volta è come un faro che brilla in mezzo a dove tutto intorno è notte. La casa di mio padre continua a strapparmi gli abiti da dosso e a graffiarmi le braccia e ogni volta non è un sogno da cui poi mi risveglio col piacere di un turbamento intenerito.
La casa di mio padre racconta la mia storia, che non è poi una storia da raccontare a chiunque altro che non sia io. Di quando non eravamo lontani l’uno dal cuore dell’altro, di quando le ore potevano cadere e squagliarsi a volontà perché ce ne erano ancora infinite dopo e l’aria penetrava dentro le finestre col suo carico leggero.
La vedo adesso la casa di mio padre e non cedo spazio alle promesse rotte, le luci spente, i nostri peccati inespiati che pure la abitarono. Mi sveglierò dopo che avrò ripreso a camminare, altrimenti che vale essermi fermato? La casa di mio padre nella mia testa mi dice che il sole mi scaldava la pelle, non mi strozzava il respiro. Che se dicembre era rigido mi bastava dar retta a mia madre e non consultare i meteorologi.
Mi dice che il domani non è un paese straniero dove tutto si fa in maniera diversa, che non c’è il diavolo a braccarmi alle calcagna, che la felicità è una parola che si può ancora pronunciare, che non mi sento parte del mondo solo quando vado a dormire la sera.
Mi dice che niente e nessuno poteva farmi male perché il male nulla poteva quando si trovava davanti la casa di mio padre. Io so bene che se ora suonassi alla casa di mio padre sull’uscio vedrei comparire una donna e, dopo averle raccontato la mia storia lei, da dietro una catenella, mi direbbe: «Scusa, figliolo, ma nessuno con quel nome abita più qui».
E ho pure sentito una voce che mi ha detto che farei meglio a tirare dritto ogni volta che passo accanto alla casa di mio padre. Ma non sempre siamo pronti a fare quello che è meglio per noi. Se la casa di mio padre ha ancora cose da dirmi io continuerò a guidare e fermarmi nel punto in cui posso vedermi prima o poi uscire a giocare in cortile con un pallone più grande delle mie mani.