di Valerio V. Bruner
Il 17 ottobre 1980 veniva pubblicato The River, l’album in cui Bruce Springsteen faceva i conti con il senso della vita
Nella cultura Lakota il fiume è simbolo di vita, un incessante intreccio di gioie, dolori, vittorie, sconfitte, rimorsi e rimpianti. Sul fondo del fiume gli antichi cercavano la risposta a un futuro che appariva incerto, beffardo. Sul fondo di quello stesso fiume, ognuno di noi cerca la propria redenzione. Era il 17 ottobre del 1980 quando Bruce Springsteen diede alle stampe il suo quinto album in studio, The River, un album doppio come le facce della vita: da un lato le piccole grandi vittorie dell’uomo comune – quell’anonimo working class hero cui Springsteen meglio di chiunque altro ha saputo dare corpo e voce – e dall’altro i suoi peggiori incubi, i fallimenti, le paure. Due aspetti della vita che non sono mai separati, ma che si intrecciano continuamente, mescolandosi furiosamente gli uni agli altri. Per poi scorrere via. Come un fiume.
The River: Un giorno dell’indipendenza sospeso tra macchine sfreccianti nel buio della notte e incidenti lungo autostrade infestate
Aveva appena trent’anni Bruce Springsteen quando pubblicò The River e sulle spalle il fardello di aver creato due capisaldi della musica rock e, come Bob Dylan insegna, della letteratura americana:Born To Run e Darkness On The Edge Of Town. Due album che ti squarciavano dentro per quanto reale e tangibile era il loro desiderio di riscatto, di ribellione a bordo di auto dirette verso il sole nascente e quella cupa e devastante rassegnazione per cui i sogni, il più delle volte, restano tali. The River è la naturale evoluzione dei due album precedenti: un tentativo, o meglio l’accettazione che la vita non è nient’altro che un compromesso tra speranza e delusione. Ecco allora che le 20 tracce che compongono l’album alternano ballate struggenti di amori perduti (Drive All Night), di amici e amanti distrutti dalle loro debolezze (Point Blank), addii dal sapore di morte (Independence Day, Wreck On The Highway) e sfrenati, folli omaggi al senso della vita (The Ties That Bind), dell’amore (Two Hearts), della passione (Hungry Heart), del sesso (Ramrod), di un futuro immaginato (I Wanna Marry You) o reale (Out In The Street). E, tra questi, due brani a tirare le fila: la title track con quella domanda alla quale ognuno di noi ha paura di dare una risposta (un sogno che non si avvera è una bugia, o qualcosa di peggio?) e The Price You Paydove, sulla riva di quello stesso fiume, siamo chiamati a pagare il prezzo dei nostri peccati.
La E Street Band e quel sound che in The River trovò la sua identità definitiva
The River è un album complesso, che puzza di vita e di morte allo stesso tempo, uno di quelli che o si ama o si odia perché troppo sfuggente, diretto, poco riconducibile a una determinata categoria. Nelle sonorità e negli arrangiamenti è sicuramente quello che espresse, all’epoca, la massima maturità raggiunta dalla E Street Band in termini di sound. Un’evoluzione che partiva dalla sintesi del romanceepico di Born To Run e dalla crudezza assassina di Darkness On The Edge Of Towne che avrebbe trovato qui la sua identità definitiva: il piano di Roy Bittan a ricamare complesse trame evocative sostenute dalla solidità della sezione ritmica di Garry Tallent e Max Weinberg. Una solidità granitica, infallibile, impreziosita dagli inserti dei compianti Danny Federici e Clarence Clemons, che davano la giusta dimensione a delle storie che sono dei veri e propri pezzi di letteratura.