di Vittorio Pasquali.
DOMENICA 3 LUGLIO
Meno male. Ieri sera Bruce è venuto, mica come a Glasgow quando aveva mandato il replicante. Deve piacergli davvero tanto San Siro, ogni volta che c’è un concerto di Springsteen, tac!, si presenta anche Bruce. Certo, non è venuto solo lui: c’era anche il pubblico.
Debbo aver letto, tempo fa, una specie di articolo contenente una serie di immani stronzate sui concerti di Bruce a San Siro che sarebbero ormai diventati nulla più di un evento mondano, per cui la gente ci andrebbe per fare presenza, perché fa figo, un po’ come alla Prima della Scala, anche se di Springsteen non gli frega granché.
No. Non era un pubblico di fan occasionali o distratti quello che ieri sera ha quasi preso il Boss per mano e l’ha ispirato a lanciarsi in uno dei più bei concerti che gli abbia mai visto fare.
Fin dall’inizio, dalla stupenda coreografia organizzata dal gruppo di “Our Love Is Real”, il popolo di San Siro ha chiarito di aspettarsi qualcosa di speciale: “DREAMS ARE ALIVE TONITE”, mica siamo qua per caso o per fare invidia al vicino di casa antipatico, insomma Bruce vedi un po’ tu che devi fa’ ma occhio che ci hai una reputazione da difendere.
Io non sono mai stato uno di quelli che hanno il mito del pubblico, dell’empatia fra l’artista e chi lo ascolta ma ieri, beh ieri è stata una cosa troppo evidente; il pubblico di San Siro non era decisamente quello visto a Glasgow, mi spiace tanto per i miei adorati scozzesi.
Mai come ieri quando Bruce ha detto “San Siro è il pubblico migliore” non mi è sembrato una paraculata ma l’ovvia constatazione di un’inoppugnabile realtà.
Perché sto innalzando questo peana al pubblico milanese, che poi milanese non è dato che proviene da ogni dove? In cosa consiste la differenza fra i fan che ho osservato in tante città del mondo e quelli convenuti ieri come sempre a San Siro?
Beh, non so se riuscirò a spiegarmi ma mi sembrava di assistere a un miracolo: pochi cartelli con richieste di canzoni (o comunque molti meno del solito, e quei pochi contenevano richieste sensate), meno ragazze issate sulle spalle a tempo indeterminato, cantavano tutti ma solo quando dovevano, per il resto silenzio, niente urletti a cacchio…
Durante la “Thunder Road” acustica finale, durante le pause del cantato, non si sentiva volare una mosca… un qualcosa di magico!
Si era ristabilito quella sorta di “rispetto” che non percepivo da anni in Europa, un rispetto che non era distacco ma coscienza del proprio ruolo, assenza di protagonismo a tutti i costi: come dire, noi siamo il pubblico, tu l’artista, sai tu quello che devi fare, noi ti seguiamo. E paradossalmente proprio questo approccio ha fatto sì che i 60.000 di San Siro divenissero la chiave di volta della serata.
In quello stadio che mi sembra sempre un palasport, per quanto è raccolto, di fronte a una folla adorante e scatenata ma competente e mai invadente, Bruce si dev’essere sentito come nei club del New Jersey a inizio carriera e ha sfoderato una prestazione leggendaria, che ha magicamente convinto e riconquistato anche tantissimi amici fans che lo avevano ormai quasi dato per perso.
Certo, ha aiutato anche la scelta della scaletta, che è stata finalmente una scaletta da “The River Tour” con 14 pezzi dell’album che stiamo celebrando con capolavori enormi tipo “Point Blank” e “Drive All Night”; anche gli altri pezzi sono stati di grande livello, con due sole richieste ma belle toste, “Lucille” di Little Richard che avevo sentito solo una volta e “Lucky Town”, capolavoro troppo sottovalutato.
E ancora “Trapped” e nei bis “Jungleland”… Ma non è stata la scaletta il punto. E nemmeno la durata (3 ore e 45 minuti, record italiano…).
No, ieri sera in realtà Bruce poteva fare quello che voleva, tanto a me sembrava di essere un ragazzino che lo andava a sentire per la prima volta: c’era un’energia nell’aria che non sentivo da anni.
Mi sono goduto da pazzi brani che in genere mi scivolano addosso nell’indifferenza, tipo quelli dei bis che sono in genere sempre gli stessi: su “Born to Run”, poi, ho raggiunto un tale livello di delirio che ho sentito il bisogno di immortalare la magia del momento e per la prima volta in vita mia ho deciso di filmare tutta la canzone, compreso me stesso ormai fuori di testa: testa che è partita del tutto con “Ramrod” per restare in orbita anche durante le “solite” “Dancing in the Dark”, “Tenth Avenue Freeze-Out” e “Shout”.
Chissà, forse mi sarebbe piaciuta anche “Waiting on a Sunny Day” (che però, per fortuna, il saggio Bruce non ha fatto).
A volte, lo confesso, mi è capitato durante i bis di non vedere l’ora che il concerto finisse, per la stanchezza magari: non ieri.
Ieri avrei davvero voluto, come chiedevano le centinaia di fogli saltati fuori nel finale in mano ai fan nel pit, che Bruce non si fermasse mai.
“Thunder Road” acustica, mirabilmente cantata all’unisono da tutto lo stadio, suggellava una serata per me inaspettata e forse per certi versi irripetibile. E forse lo sentiva anche Bruce, che salutandoci era visibilmente commosso, quasi piangeva.
https://www.youtube.com/playlist?list=PLPvayFJyoXKLqklmA8f5gEscxBwY_CD1U
MARTEDÌ 5 LUGLIO
Ve lo ricordate Mike Marsh?
No, non ho sbagliato a scrivere, non Dave Marsh, quello è chiaro che ve lo ricordate! Ho detto proprio Mike Marsh, sprinter americano, campione olimpico dei 200 mt. a Barcellona 1992.
Ero davanti alla televisione in quel giorno d’estate a vedere la sue semifinale: Marsh corse in modo pazzesco, un mix di potenza, agilità, classe, sembrava toccato dalla grazia divina per come correva sciolto, con facilità quasi.
A 10 metri dal traguardo, sentendo che gli avversari erano ormai lontani, rallentò visibilmente e tagliò il traguardo senza forzare.
Il cronometro disse 19:73, a un solo centesimo dal record mondiale di Pietro Mennea, ottenuto in altura 13 anni prima a Città del Messico: avesse continuato a spingere, Marsh lo avrebbe battuto facilmente limando almeno 5 centesimi ma aveva preferito risparmiare le energie per la finale che si correva poche ore dopo.
E invece in finale qualcosa andò storto: Marsh corse contratto, a scatti, l’agilità e la grazia erano come svanite. Vinse, certo, ma corse in 20:01, ben lontano dalla prestazione precedente.
Perché ho tirato fuori questa vecchia storia? Perché martedì Bruce mi ha fatto pensare a Mike Marsh.
E’ un po’ come se dopo il concerto stellare di domenica si sia sentito in dovere di superarsi e la responsabilità lo abbia un po’ fatto strafare, tanto che a tratti si è un po’ imballato. Ha vinto, anche lui, ci mancherebbe, perché è stato un grandissimo concerto e lui è un campione, ma non ha migliorato il risultato precedente e non ha fatto il record.
Si dice sempre che quando il Boss fa due concerti un uno stesso posto il secondo sia sempre migliore, e in effetti generalmente questo è vero: stavolta era difficile.
Domenica ci aspettavamo uno show più “nazional-popolare”, più alla portata dei fan occasionali, più “greatest hits”, e invece lui ci aveva travolto con quasi quattro ore di spettacolo memorabile: cosa attendersi dal secondo show, che nelle nostre previsioni sarebbe dovuto essere quello più strettamente riservato ai “die hard” fan? Una serie terrificante di chicche?
Beh, la serie di chicche c’è stata, non si può negare. Avessi letto le due scalette senza essere stato presente avrei detto che il secondo concerto fosse stato, come sempre, il migliore.
E invece c’ero per fortuna, sia domenica che martedì, e ho toccato con mano la differenza che c’è fra teoria e pratica, fra l’arida oggettività di una lista di canzoni e l’impalpabile soggettività di una valanga di emozioni.
Il Boss ha cominciato come se volesse spaccare il mondo, e noi con lui: prima assoluta europea, finalmente, di “Meet Me in the City”, poi la sempre benvenuta “Prove it All Night”, poi un’altra out-take da “The River”, la stratosferica “Roulette”: oddio, farà mica una serata di out-take? Godevo al solo pensiero!
Poi, dopo “The Ties That Bind” e “Sherry Darling”, la prima piccola crepa: Bruce comincia già a prendere i cartelli dal pubblico.
Già, il pubblico: non mi chiedete come sia possibile, ma stasera il pubblico non è più quell’entità compatta e perfetta di due giorni prima e il primo segnale è il proliferare di cartelli, esibiti con insistenza anche quando Bruce è lontano e a scapito di quelli che stanno dietro che si vedono occultare la vista del palco; poi ci sono quelli che passano vari minuti con la ragazza o l’amico sulle spalle, quelli che schiamazzano nei momenti che dovrebbero essere di religioso silenzio…
La richiesta che il nostro raccatta dalla folla e mostra come se si trattasse di un’imperdibile rarità è l’immancabile “Spirit in the Night”: non che ci dispiaccia risentirla ma insomma, Bruce, non fare finta che sia una richiesta, l’avresti fatta comunque…
Altro cartello: stavolta va molto peggio, perché c’è scritto “Rosalita”.
Non fraintendetemi, io ADORO “Rosalita (Come Out Tonight)”, ma fatta a inizio concerto è un delitto, un crimine contro l’Umanità… Rosalita a inizio concerto è sprecata, cacchio, quella è roba da fare nei bis quando il delirio è al massimo! Rosalita all’inizio è una costante di tutti i concerti che non mi hanno convinto, mi mette proprio di cattivo umore, mi indispone!
Meno male che stasera non è e non sarà comunque una serata storta: la richiesta successiva è “Fire”, con un bellissimo cartello che non è un cartello, è una specie di riproduzione di San Siro in 3D apparentemente fatta di cartone con la scritta “FIRE” sopra, e Fire, insomma, è una richiesta che ci sta!
Poi arriva “Someting in the Night” e beh, insomma, dai che Bruce riprende il timone e lo spettacolo torna a salire di livello!
E invece no, si continua ad andare a strappi fra pezzi più o meno soliti e geniali richieste di rarità di cui avremmo fatto volentieri a meno (una “Mary’s Place” che spezza di brutto la tensione).
Anche stasera i ragazzi di “Our Love is Real” realizzano una bellissima coreografia: durante “The River” il parterre si illumina di tubetti fluorescenti azzurri mentre sul secondo anello compaiono un cuore illuminato da un lato e l’acronimo ESB dall’altro!
Le cosiddette chicche sono una marea, più che domenica: oltre alla già citata “Something in the Night” arrivano “Racing in the Street”, “The Price You Pay”, un’inattesa e grandiosa “Streets of Fire”, tour premiére tirata fuori dal cilindro con un improvvisa ispirazione, e poi ancora “Backstreets” e la a me sempre gradita “Bobby Jean” nel finale, prima della chiusura acustica stavolta con “This Hard Land” (e anche qui il pubblico non è più silenzioso e attento come due sere prima).
Particolare non da poco, finisce fuori scaletta “Thunder Road” ma pazienza, non è la scaletta il problema: 6 pezzi (su 10) da “Darkness on the Edge of Town”, roba grossa, 8 (su 20) da “The River” più 2 out-take contro i 14 della sera prima, 3 soli pezzi da “Born in the U.S.A.”, insomma come qualcuno mi fa notare alla fine quasi uno show da inizio anni ’80.
Eppure qualcosa non è andato per il verso giusto, ci sono stati alti e bassi, colpa anche delle troppe richieste arrivate dal pubblico (sono come avrete capito fermamente contrario e mi riprometto di non farne mai più), è mancata la compattezza di domenica (certamente favorita anche dalla struttura portante basata su “The River”).
Al di là di tutto però, via, un grande concerto anche stasera: Bruce ha dato tutto, non gli si può rimproverare niente, i miracoli come quello di domenica nemmeno a lui possono riuscire sempre.
Alla fine non ha più voce, il Boss: ci saluta, ci guarda e sembra che non vorrebbe andarsene mai. Anche noi non vorremmo andarcene mai: io vado cercando fra la folla quanti più amici possibile per salutarli anche se so che sarà impossibile trovarli tutti, ce n’erano davvero tantissimi in queste serate milanesi, farei molto prima a dire i nomi di quelli che non ho visto.
Ma fa niente, ci siamo divertiti, abbiamo vissuto insieme due serate strepitose e non è mica finita qua…
Ci vediamo a Roma.
Grazie per questa doppia recensione. Io ho avuto sensazioni diverse ma è bello che si possa vivere un concerto di Springsteen in modo diverso, ognuno vedendo le cose a modo proprio. Ottimo il 3, ci mancherebbe, ma senza sorprese, per me. Con Bruce visibilmente stanco (era un caso che la regia inquadrasse più il pubblico di lui?) e la voglia comunque di portare a casa una performance generosa, non curandosi della voce affaticata. O così l’ho vissuta io: non ho ancora sentito le registrazioni ma io ho avuto l’impressione che martedì Bruce fosse più riposato ed energico, voglioso di divertirsi. E’ vero che la scaletta era più ondivaga ma tra recuperi, sorprese e pezzi che mi erano mancati domenica io me la sono goduta decisamente di più. La maggioranza degli amici l’ha vissuta così ma c’è anche chi ha preferito la prima data a San Siro. Leggendo i commenti in questo sito vedo che veramente c’è spazio per ogni parere (cosa che trovo legittima: nel bene e nel male ognuno ha il *suo* Bruce). Io sono solo all’undicesimo concerto ma quello di martedì 5 mi è sembrato uno dei suoi migliori (assieme a San Siro 2012, direi, e, come impeto – potrà sembrare un bestemmia – Verona del 1993). Ma ripeto: fa piacere vedere e imparare che c’è chi sente le cose diversamente. Al prossimo San Siro, ad ogni modo! Ciao, grazie. Filippo