di Gianmaria Vianova
Milano 03/07/16
Dreams are alive tonite.
Datemi la definizione di “umano”. Cos’è umano? L’Homo Sapiens, un animale sviluppato dotato di intelligenza. Un organismo avanzato per i canoni di questo pianeta. Ha intrinsecamente limiti fisici e razionali. E’ un qualcosa di finito, altrimenti sarebbe altro. Non certo umano. Sarebbe utile ora abbandonare il creazionismo. Dio che in quattro e quattr’otto disegna mari monti e colline, animali e uomini. Dio che gioca con i Lego. Uno sforzo, anche per i credenti radicali: ascoltiamo Mr Darwin. Questo qui aveva una idea tutta sua: l’evoluzione della specie. Processo lungo, lento, costante, fatto di selezione naturale e complessi incroci. Ci vogliono migliaia di anni ma i caratteri dell’uomo del futuro ciclicamente fanno capolino. Non venitemi a dire che Leonardo da Vinci, Napoleone e Marx erano umani standard. Non erano alieni.
Semplicemente avevano una particolare componente che li differenziava di gran lunga dalla media della specie umana. Un inventore, un leader carismatico e un precursore dei tempi. Il 3 luglio, a San Siro, abbiamo avuto il piacere di vedere un altro del club. Springsteen, il performer, che a quasi 67 anni urla suona e corre per 3 ore e 46 minuti. Non è un superuomo, è solo un assaggio di quello che potremmo diventare, una sfumatura. Se metti il Boss a scrivere Il Capitale o a inventarsi nuove armi fallirà miseramente. Ma in quella sua sfaccettatura, quella del performer, non ha eguali. A San Siro, poi, il frammento di DNA che codifica i concerti si accende come non mai.
Il mondo è qui. Appassionati e fan. Curiosi e seguaci dell’ultima ora. Tutti riuniti sotto la Scala del Calcio. Il Boss riempie gli stadi con gente che magari il calcio lo odia. Chissene frega. E’ il rito. Per raggiungere l’ingresso devi passare tra bancarelle, paninari, clandestini con merce clandestina e bagarini. E’ un passaggio obbligato, sotto il sole di luglio. Serve il sole per il tramonto. Serve il tramonto per la notte. Che belli i volti. Eccitati e felici. Il giorno atteso da mesi, per alcuni da anni. L’occasione di vederlo o rivederlo per l’ennesima volta, finché c’è. Finché ne ha. Che spettacolo.
Ricerca del posto. Sai qual è. Sai anche dov’è. Non sai come arrivarci. Poi ti fai strada. Percorri tutta la spirale infinita di San Siro e ti ritrovi al terzo anello rosso. In altura. Almeno vedi bene i megaschermi, dici. Dove andrebbe il tuo fondoschiena c’è un foglio di plastica di colore azzurro. Verde acqua. Blu mare. Non ho mai capito niente di cromatografia ma, a regola, è lo stesso colore del font di “The River” (album del 1980 cuore del tour). Allegato al foglio vi sono le istruzioni. Lunghe, infinite. Le avrò riguardate cinque volte le istruzioni di quella benedetta coreografia. Che poi, cosa ci vuole? Basta alzare il foglietto e il gioco è fatto. Però ti sale l’ansia. Credo sia comprensibile, oppure voglio solo crederlo per non essere preso per pazzo. L’ansia di compromettere un momento che si preannuncia storico e di non voler sbagliare niente. Essere perfetto. Non essere il puntino azzurro fuori posto che scompone la lettera. Insomma: tutto questo potrebbe finire in uno di quei dvd sovrapprezzati all’inverosimile che soltanto i fan più accaniti… ma no, anche quelli standard, finiranno per acquistare.
Dannato sia il merchandising. Sono ovunque quelle bancherelle. Le magliette le ha cucite Armani in persona? Non credo. Il merchandising altro non è se non un tassa che devi pagare per possedere un ricordo materiale che puoi indossare, per traslare senza soluzione di continuità il passato nel presente. Pagare per portare un frammento di quella straordinarietà nell’ordinarietà di tutti i giorni.
Intorno a me il mondo. Non solo italiani. Non solo giovani. Non solo diversamente giovani. Non solo. Vince l’eterogeneità ai concerti di Springsteen e forse è proprio questa una delle chiavi del successo dei suoi spettacoli. E cantano. Tutti.
Voci sperano in un Jungleland. Più in là vorrebbero No Surrender versione acustica. Ognuno di noi ha una sua canzone del cuore, ognuno di noi spera e in ogni caso si accontenterà: il delirio è scontato e non sono ammesse lamentele. Sei nell’olimpo del rock, il massimo che la musica moderna possa offrirti nel 2016. Goditelo.
Sono le 20 e nulla si muove. Ti chiedi cosa possa essere successo. L’impazienza dilaga. La voglia di urlare anche. La voglia di avere qualche ora di pace messa a bagnomaria in una valanga di onde sonore. Mettono a posto le telecamere, soundcheck infiniti. Il terzo anello verde inganna l’attesa impossessandosi del titolo di matador dello stadio. Fa curriculum. Coro, tutti insieme. Braccia protese in avanti. Mani a sfarfallare. Parte la ola. Davvero un peccato. Davvero. Davvero un peccato che gli architetti padri del Meazza abbiano pensato di mettere un pilastro possente per sostenere l’intera struttura: non permette al settore rosso di vedere quando arriva l’onda dei verdi. Però almeno lo stadio sta in piedi. Questione di prospettive. La ola si ferma, sempre. L’avranno fatta partire una decina di volte, sempre con meno speranze: colpa anche delle mozzarelle del settore blu che non percepivano il rito collettivo. Poco male.
C’era una volta il west. E allora capisci che ci siamo. Mani in aria. Si compone la coreografia. Tre anni prima “Our love is real”, stavolta “Dreams are alive tonite” a caratteri bianchi immersi nell’azzurrino “The River” sormonta un bel tricolore che abbraccia tutti e tre i settori. Il colpo d’occhio è indescrivibile. Bruce lo vede. Si atteggia alla lettura, è il suo lavoro. Sta per commuoversi: l’Italia si conferma pazza patria del suo rock, pazza fan di Springsteen. Il sentore c’è. Il sentore che questa sarà una seratona, con buona pace di chi lo dava per finito. Avete caldo? Andiamo! E andiamo sì, Boss. Andiamo. Land of hope and dreams, come nel 2013, a rompere il ghiaccio. E’ già il solito sciamano. This train! This train! People get ready! Cosa volete che vi dica, è sempre lui.
Un brano via l’altro. Senza fermarsi mai. La band lo segue. Perfettamente coordinati e in armonia. Qualcuno suona con lui da decenni, altri si sono aggiunti dopo ma la differenza a livello di motore musicale non si avverte. Suona quasi tutto The River, l’album s’intende, e in “quasi tutto” ci sono delle perle. Jackson Cage, con il riff nostalgico che lo inaugura, Point Blank, magico immenso indescrivibile, e pure Drive all Night che fa commuovere lo stadio. In mezzo c’è spazio anche per una infinita The River, con l’armonica che battezza la folla: ogni volta è un incantesimo, e durante i suoi assoli folk percepisci la centralità che ha quel rito per il concerto, per te, e per la tua vita.
Can you feel the spirit? Si, ha fatto anche quella. Jungleland? Si, ha fatto anche quella. Trapped? Anche, con il buio e la successiva luce rivelatrice “but now I’m trapped!”. Because the night? Anche, con l’assolo da pelle d’oca di Lofgren. Le ha fatte tutte signori miei. E a Jungleland, che portava il concerto verso la chiusura, la gente non ci poteva credere: è troppo, troppo. Si potrebbero spendere migliaia di parole per ogni canzone celebrata (non suonata, è ben diverso) ma sarebbe soltanto un esercizio stilistico fine a sé stesso. Perché rovinare l’anima con un egoistico barocco?
I’m just a prisoner… of rock’n’roll! E-e-e-eeeee, e-e-e-eeeee, Shout! Shout! Braccia in aria, a intermittenza, una folla, una barriera corallina di tentacoli che si dimenano nell’etere. Non li teneva nessuno i 60mila di San Siro. Nessuno. Spuntano cartelli dopo la terza ora (la maggior parte degli artisti sarebbe già stata sotto la doccia): Bruce don’t stop tonight! Si vuole anche il record di durata ma a cosa servirebbe? Sono 3 ore e 46, non le faceva neanche durante il tour di Born in the USA… ma di cosa stiamo parlando? E allunga Shout, e la allunga, e la allunga, e balla, e anima la folla, assoli, e ancora Shout.
Tonight, you’ve just seen…
the heart-stopping,
pants-dropping,
house-rocking,
earth-quaking,
booty-shaking,
Viagra-taking,
love-making,
Le-gen-dary
E – Street – Band!
Poi basta. Deve congedare la band (spesso ci si dimentica che anche loro se ne stanno lì per 4 ore). Torna, naturalmente, chitarra e armonica alla mano per dare la buonanotte. Thunder Road. La più bella a detta di molti. Una delle perle del rock a detta di tutti. Siete il pubblico migliore del mondo, dice. E vorrei ben vedere: gli unici a seguirlo per l’intera durata. Gli altri popoli si stancano prima. Noi, pazzi italiani, della stessa pasta dei Fuckin’ Die Hard di Firenze (bagnata) 2012, non molliamo mai. Sappiamo apprezzare. Sappiamo ringraziare. Sappiamo onorare. E’ una questione anche di rispetto se volete: lui dà tutto, anche noi diamo tutto. I concerti di Springsteen sono bidirezionali: loro danno a noi, noi diamo a loro. E non è cosa scontata.
Poi ciao Boss, anche a sto giro è finita. Senso di vuoto che ti pervade. Perso. Cosa hai appena visto. Incredulo. Te ne vai con mille pensieri. Pensi alla tua vita, al concerto, alla tua vita, al concerto e ancora alla tua vita. Ha cambiato qualcosa in te senza dubbio. Sarà una pietra miliare della tua esistenza e lo sai non appena esci dallo stadio. Per qualche giorno pensi che non ascolterai più musica, non andrai più a nessun altro concerto: dopo questo ho visto tutto. Poi ti riprenderai, poco per volta, forse.
Non ce l’ho fatta. Prendo sempre un souvenir, un ricordo. Non ce l’ho fatta a sto giro. Un po’ perché le magliette facevano pena, un po’ perché avevo elaborato la teoria della “tassa sui ricordi”, un po’ perché non era corretto. Nello zaino conservavo ancora il mio pezzo di coreografia. Quello mi bastava. Non ce l’ho fatta a mercificare questo ricordo. Non ce l’ho fatta a spendere soldi per un portachiavi o un cappello. Non mi è sembrato giusto. Sarebbe stato come ridurre al convenzionale un qualcosa che di convenzionale non aveva avuto nulla. Avrò il ricordo e questo raccontino, e tanto mi basta.
Niente potrà superare questo, dici. Lo dici sempre. Ogni volta afferra l’asticella e la alza, di qualche centimetro, verso il cielo. Ed era già alta chilometri. Credi, sei certo, che ciò a cui stai assistendo sia pressoché l’apice di una parabola, che la tua permanenza duri circa 4 ore e poi qualsiasi altra performance alla quale tu possa prendere parte si collocherà in una traiettoria discendente. Invecchia e non molla. Invecchia e stringe i denti. Ogni 3/4 anni torna e ogni volta non fa rimpiangere il concerto di 3/4 anni prima. Vocalmente sta perdendo qualcosa, è vero. Fisicamente anche, è vero. Ma dopo le 4 ore l’impatto del suo cuore supera di gran lunga il declino dettato dall’età. E alla fine non c’è niente da fare. Alza l’asticella. Tu, più stanco ed esausto di lui (e di loro) non puoi che contemplare e sorridere. Avere la pelle d’oca e urlare. Imprimere ogni istante nella corteccia cerebrale e sperare di non dimenticartene nemmeno uno.
E allora potrai dire: io c’ero. Si, c’ero anche io quella sera. La stessa in cui lui ha compiuto il miracolo, la stessa in cui ha fermato il tempo ed è tornato 30enne. La stessa in cui tutto lo stadio si era colorato e si era mosso. La sera in cui 80enni sugli spalti non volevano muoversi fino all’ultima nota di armonica dell’ultimo brano. La notte in cui gli innamorati si baciavano durante Born to Run e Jungleland. La sera in cui ha toccato di nuovo il cielo e persino la Madonnina del Duomo sembrava più vicina. La notte in cui i sogni erano vivi. La notte in cui tutto era da scrivere. La notte, l’ennesima, in cui Springsteen buttò giù lo stadio. The night when dreams were alive.