di Sonny Delvecchio.
Sapevo perfettamente cosa mi attendeva al di là di quei cancelli.
Il mio cuore sapeva già che per 3 ore abbondanti avrebbe seguito il ritmo della batteria di Max Weinberg, coi miei timpani che già pregustavano le chitarre degli antologici Nils Lofgren e Steven Van Zandt.
Insomma, nonostante la forte emozione, ero pronto per la leggendaria E Street Band. Ma essere pronti per Lui (che non oso neppure nominare)… è un’altra cosa.
Ore 20 circa. Me ne sto in attesa, scalpitando in tribuna stampa, collocazione che mi si addice almeno quanto a Zaza il ruolo di rigorista…
Ed eccolo. È Lui!
Prendendo per mano tutto lo stadio, inizia a raccontare della sua terra di speranza e sogni (Land of Hope and Dreams), in cui i legami che uniscono le persone sono indissolubili (The Ties Are Bind), anche anche un po’ forzati, sopportati per amore (Sherry Darling). Poi, come un predicatore posseduto, si mette a invocare gli spiriti, con tutto il fiato che ha in gola (Spirit in The Night), quegli stessi spiriti che al mattino ritroveranno le fatiche abbandonate dietro l’angolo la sera prima (Jackson Cage). Sono i problemi di tutti i giorni, problemi che, anche se si pensa di poterli risolvere da duri senza l’aiuto di nessuno, forse è meglio affrontarli in due (Two Hearts), perché due cuori sono meglio di uno. Già… Il cuore. Quel muscolo misterioso, alimentato da emozioni come il rimpianto per le parole mai dette al proprio padre e rimaste strozzate in gola (Independence Day), che per quanto possa sopportare sarà sempre affamato (Hungry Hearts). E in questo turbinio di quotidianità, che incasina la vita di tutti, sia il cuore che lo spirito necessitano di una valvola di sfogo, che può trovarsi giù in strada (Out in The Street), dove può capitare di prendersi una cotta che ti faccia sbandare, senza badare se abbia il grano oppure no (Crush On You). Se il nome di quella ragazza dispersa nella folla proprio non ti sovviene, ecco che il suggerimento giunge tramite un cartoncino appeso alle mani di un pupazzo che vagava sotto il palco (Lucille), a dimostrazione che il nostro cantastorie del Rock non fa discriminazioni: ascolta la voce di tutti, perfino dei pupazzi.
L’importante è non abbassare mai la guardia e rammentare che, in certi casi, è meglio guardare e non toccare (You Can Look but You Better Don’t Touch), perché l’amore è sì meraviglioso, può farti tuffare in un fiume di passione, che però potrebbe compromettere tutta la tua vita, fino a prosciugare quello stesso fiume (The River), dove i ricordi di promesse fatte in una pista da ballo s’infrangono contro la realtà (Point Blank). E mentre narra questa storia, le dita di Roy Bittan e del suo piano sfiorano le anime grondanti di sudore accalcate al Meazza, portando una carezza di conforto a qualche lacrima sfuggita al controllo.
È un must: non si deve mai finire prigionieri (Trapped), specie dei ricordi. Occorre consapevolezza, raggiungibile solamente grazie a un climax di pathos, composto da improvvisi bagliori che possano riaccendere la luce sulla nostra strada. Si deve andare avanti, nel modo che più si preferisce: togliendosi il dolore dal cuore con un coltello, per poter rivitalizzare la fede in una terra promessa (The Promised Land) oppure indossando una giacca di vera pelle e stivali di serpente, suonando del buon rock ‘n roll (I’m a Rocker) e andando in città a cercar fortuna (Lucky Town); ma anche risparmiando soldi che potrebbero essere investiti in una follia (Working on The Highway e Darlington County), di quelle follie che si fanno quando si sente l’anima bruciare (I’m On Fire), di un ardore che può spegnersi solo guidando tutta la notte (Drive All Night), attraverso una notte che appartiene agli amanti, una notte che appartiene a ognuno di noi (Because The Night).
Solo quando l’oscurità lascerà spazio alle prime luci del giorno, tutti sapremo che quello è il momento della resurrezione (The Rising), che parte sempre dai bassifondi (Badlands), dove chi ci è nato deve essere già felice per essere riuscito a sopravvivere in quella giungla d’asfalto (Jungleland), che si estende per tutti gli States (Born in the Usa), ma che in qualche modo è anche qui.
Seppur si faccia finta di non vederlo, in ognuno di noi si cela un vagabondo che è nato per correre (Born to Run) in cerca di emozioni forti e di gioie effimere (Ramrod). Si può scegliere di cambiare vestiti, capelli e faccia (Dancing in The Dark) seguendo la via del cambiamento che, presto o tardi, arriverà anche in periferia (Tenth Avenue Freeze-Out). E allora perché non ballarci sopra lasciandosi alle spalle domande e risposte, semplicemente scatenandosi (Shout), prima di salire sulla propria vettura, abbandonando la propria città popolata di perdenti, alla ricerca di un nuovo futuro, imboccando una strada senza ritorno (Thunder Road).
Alla fine della favola, non c’è una morale: era solo una lunghissima storia. O forse no…
Cos’era?
Forse la risposta sta nei versi di Walt Whitman:
“… Domande come queste mi perseguitano,
infiniti cortei d’infedeli,
città gremite di stolti,
che vi è di nuovo in tutto questo,
oh me, oh vita!
Risposta
Che tu sei qui,
che la vita esiste e l’identità,
Che il potente spettacolo continua,
e che tu puoi contribuire con un verso.
Si lascia la stadio, con le mani gonfie e doloranti per gli infiniti applausi, ma col cuore gonfio della solita consapevolezza: Dio esiste e ha suonato a Milano.